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LA REPUBBLICA Spazzata via anche la Roma: la grande fuga sa già di scudetto

Totti

(M. Crosetti) A un certo punto, il pubblico juventino ha cominciato a ululare, facendo il verso del lupo. Trattasi di un coro copiato da quelli dell’Avellino appena stati in visita qui, per la Coppa Italia, ma non c’è suono che meglio renda l’idea: perché la Juve è davvero una squadra predatrice, con gli occhi a fessura e i denti scintillanti nel buio. Forse la Roma sperava nell’effetto natalizio, si augurava che i campioni bianconeri fossero almeno un po’ mandorlati, appena un attimo glassati, e invece niente: Vidal, Pirlo, Pogba e Tevez disdegnano uvetta e canditi, loro si placano solo bevendo sangue. Anzi, lo bevono e non si placano mai. I lupi di Conte fanno dunque a brandelli il campionato, dilaniando non solo la Roma ma i mesi a venire. Perché non sarà da loro non capitalizzare questi otto abissali punti di vantaggio, o forse sono ottanta, ottocento, una voragine tra la Juve e il resto d’Italia, nella circostanza rappresentata dalla Roma che fa la fine di tutti gli altri, dal Napoli in giù. Fa la fine di un’orchestra di arpe alle prese con una squadra di suonatori di martello pneumatico. Diciamo che le arpe non ne possono uscire benissimo. Il punteggio è impietoso, ma ancora di più lo è stata la partita.

La Roma ha fatto titìc e titòc per un quarto d’ora, mentre la Juventus sembrava una mamma che guarda giocare il suo bimbo ai giardinetti. Finché è stata ora di smettere e andare a casa. E se il bravo Garcia sapeva alla perfezione che nulla poteva ferire la sua squadra più degli incursori bianconeri, Vidal non gli ha dato né tempo né modo di evitarlo. Bastano 17 minuti perché Tevez pizzichi un assist perfetto per il cileno, il quale per l’ottava volta segna in modo esatto e rovinoso insieme, lama di macellaio e maglio. Da qui in avanti, la partita che non c’è mai stata non ci sarà mai. Più di tutto sorprende la semplicità con cui la Juve divora l’unico avversario che, in campionato, sembrava di una consistenza simile a lei, o almeno non troppo diversa. Invece era la solita illusione ottica. Perché i campioni d’Italia, a parte i venti minuti di buio a Firenze e i pupazzi di neve a Istanbul, quest’anno non sbagliano nulla. E la Roma lentamente ne prende coscienza, dopo avere scambiato la calma iniziale della Juve per timidezza. In effetti, per quindici brevi minuti i lupi sembravano un po’ intorpiditi, quasi dei cagnoloni da salotto, però i romanisti non sono riusciti a concretizzare nulla dei loro estenuanti preliminari. Accarezzano, sbaciucchiano ma non vanno mai al dunque, al contrario della Juventus. Non un granché il primo tempo, quanto è bastato ai padroni per rimanere tali.

E all’inizio della ripresa, ecco la seconda zannata che porta via altri pezzi di carne alla Roma: punizione di Pirlo (lui sì un poco mandorlato, forse più dalla convalescenza che dal panettone), sullo sfondo entra in scena Bonucci, colpo in spaccata e 2-0. L’unica grana, in tutto questo ben di Dio, è il malessere di Tevez costretto a uscire dopo un’ora per problemi muscolari, poi la Roma decide di perdere la testa insieme alla partita con due espulsioni indiscutibili: prima De Rossi che ara Chiellini, poi Castan che sulla linea respinge di pugno come Zoff, ovvio rigore, tocca a Vucinic il gusto del piccolo “triplete” dal dischetto, e insomma quel pallone è la pietra tombale della gara, forse la lapide del campionato. Altro che aiutini, altro che scenari alternativi. Pure il buon Totti avrà capito qual è la squadra più forte d’Italia, quella che adesso può fare a gara solo col passato, soltanto contro se stessa: cioè contro la Juve degli anni Trenta, l’ultima capace di tre scudetti consecutivi, anzi di cinque, quella di Combi e Rosetta, Caligaris e Felice Placido Borel detto “farfallino”. Pionieri seppiati dal tempo, quel tempo che per gli altri è già scaduto. 

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