(G. Dotto) – Siamo tutti di passaggio. L’importante è crederci definitivi. Senza questa fondamentale astuzia non ci alzeremmo nemmeno dal letto la mattina. Luis Enrique, quando si alza dal letto, deve andare da Formello a Trigoria e solo per fare questa traversata tutti i giorni c’è bisogno di una fede assoluta oltre che di una tanica esagerata di benzina. E, quando arriva, non è finita. Iniziano i dolori. Quelli di Trigoria, di questi tempi, non sono esattamente i cancelli del cielo.
La vera domanda, alla vigilia di Palermo, è: quanto è ancora illesa la fede di Enrique dopo l’impareggiabile disavventura del derby? «Che cosa ho fatto di male per meritare tutta questa mierda?» è la più struggente invocazione mai udita dai postriboli del calcio a fine partita, perfino troppo elevata per le orecchie prosaiche che l’hanno ricevuta. Ma è anche il primo, manifesto segno di cedimento. Niente di male, anche Gesù ha dubitato nel deserto e Luis Enrique ne ha attraversati di deserti. Il guaio è che “l’uomo verticale” ha tutta l’aria di considerare il dubbio non una prova da superare, ma una disfatta esistenziale.
Proviamo a spiegarlo noi che cosa ha fatto per meritarla tutta questa«mierda» (traduzione: accanimento malvagio della malasorte). Nei suoi otto mesi romani l’asturiano ha incassato un credito quasi illimitato.A concederlo sono stati i tifosi in grande maggioranza, i giocatori quasi tutti, la parte più onesta della critica. Non consideriamo i detrattori a prescindere, condannati a esibire pallosamente la frustrazione dei nani, un travaso di critica ai confini dell’insulto, che ne confessa la bile più che il pensiero. Per tutto il resto, Enrique è stato amato e continua forse a essere amato da tutti quelli che hanno bisogno di credere che il calcio sia quello che è, una grandiosa evasione di massa e non una mediocre funzione per abitudinari.
Se siamo arrivati a dubitare di Enrique non è per l’eliminazione in Europa o in Coppa Italia, nè per le sconfitte in serie, alcune da depressione, e nemmeno per i due derby perduti. Dubitiamo di Enrique, da Bergamo in poi, perché ha mostrato di non capire che la grandezza dei principi è nella loro flessibilità. Che il carisma di un leader non sta nell’applicazione maniaca delle regole ma nel far passare la regola a dispetto della regola. Nel capire, ad esempio, che la gogna di De Rossi “esibito” in tribuna è una sconfitta per tutti.
Il merito di Enrique è di aver acceso un fuoco, il suo torto è quello di non saperlo alimentare. Di aver costretto i suoi ammiratori a riaggiornare il più celebre e il più nevrotico motto di Ovidio: non posso vivere con te, nè senza di te. Questa è oggi la posizione dei tifosi che credono ancora nello spagnolo. «Vogliamo continuare a stare dalla tua parte, ma dacci la possibilità di farlo» , dicono silenti. Domani sapremo. Non se la squadra è con Luis Enrique, ma se è dalla parte dei tifosi che, un pomeriggio d’inverno, si sono messi insieme e hanno prima concepito e poi confezionato lo striscione “mai schiavi del risultato”.
Se conosco un po’ Baldini e Sabatini, la loro tigna e il loro orgoglio, butteranno all’aria anche i codici del fair play pur di riportare lo scudetto alla Roma. Non conosco abbastanza Luis Enrique per capire se quella frase di domenica all’Olimpico è la sua resa. In quel caso, se ne andrà a fine campionato e Roma sarà stata la sua ben pagata palestra per essere diventato un allenatore e forse anche un uomo migliore. Qualcuno lo sostituirà. Dovrà essere giovane, solido e visionario. La nostra idea? Sarà, probabilmente, anche “londinese”. Un nome? Gianfranco Zola. E’ giovane, solido, soprattutto sardo, non so se visionario, ma amico di Baldini e del bel gioco. E’ venuto a Roma per parlare con Lotito. Una visita di cortesia. La sponda, forse, era l’altra.