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ORA D’ARIA “Riflessioni Sparse” Paolo Marcacci

Ora d’aria di Paolo Marcacci

Sarà una questione generazionale, sicuramente; sarà che quando stai aggirando la boa dei quaranta comincia quella tendenza a parlare di un passato mitico per scongiurare un presente che ti appare incerto; sarà pure, quindi, che non c’è tutta questa voglia di parlare di Berlusconi che non molla Mattia Destro, di Stekelenburg con la valigia e di altre contingenze che riguardano questo strano gennaio in giallorosso. Meglio allora tuffarsi in un gennaio, un nove gennaio di tanti anni fa: era il 1977 e per la Curva Sud si aprivano i cancelli della Leggenda, con la maiuscola. Ogni cosa è figlia del suo tempo; ogni cambiamento, quando si verifica, è in qualche modo fisiologico, lo hanno detto nei secoli grandi filosofi e pensatori. E’ soltanto che è stato bello, un vero privilegio, un incrocio fortunato del destino, avere dieci, poi venti e infine quasi trent’anni da romanisti all’ombra del Commando Ultrà Curva Sud, dove tutto nasceva, dove tutto vibrava di cuori e tamburi, dove ogni volta gli occhi si stropicciavano perché l’inventiva e la passione avevano, una volta di più, superato se stesse. Ho scritto “Ti amo” su un lenzuolo e non sulla sabbia, come diceva non ricordo quale canzone; il vento non lo ha mai portato via: basta rivederlo in foto, meglio ancora se sbiadita, per capire che non c’è mai stato niente di più grande, di più assoluto, di meno condizionato dal tempo e da tutto quello che  sarebbe accaduto. Perché se dico ti amo una volta, in quel modo, poi è normale che mi ritrovi in un pomeriggio di marzo di qualche tempo dopo, fiero delle lacrime di un “Che sarà sarà…”, come si è orgogliosi anche della sofferenza quando è allo stato puro, la forma più elevata del dolore e quindi dell’amore: si torna sempre lì, a quel Ti amo che non passa mai. Quasi tutta la mitologia personale di un’adolescenza e di una giovinezza trascorse quando gli anni ottanta si davano da fare per cancellare buona parte del decennio precedente e quando i novanta si muovevano incerti nel capire cosa desiderare; chi era tifoso della Roma, uguale quindi a nessun altro, ha visto la propria crescita, spesso i propri amori, i valori che stentatamente cominciava a scegliere legati a doppio filo al rullo dei tamburi della Sud, che scandivano la nostra voglia di conoscere il mondo, le emozioni, gli stati d’animo attraverso la Roma. Anzi, prima attraverso la Curva e poi attraverso la Roma: chi non ha scelto questi colori non potrà che giudicare folle questa formula, questo modo di vedere le cose; per noi era semplicemente la normalità, l’unica forma di esistenza possibile. Le epoche passano, le generazioni hanno tutto il diritto di cambiare, tagliare i ponti, stravolgere quello che trovano vecchio ed obsoleto; la storia però è sempre in grado di operare la giusta selezione e di consegnare all’immortalità dei ricordi ciò che è giusto che rimanga, che venga raccontato, di cui si debba tramandare la leggenda. Ecco, noi abbiamo avuto il privilegio di una gioventù, non solo calcistica, nell’abbraccio di una grande mamma che dettava le sue regole per poi farti provare la forma più assoluta dell’amore: attraverso una maglia che nessuno di noi, qualsiasi cosa ci capiti in ogni altro ambito della vita, svestirà mai, fino alla fine.

Ad Agostino di Bartolomei, a Luisa Petrucci, a Ivo e a tutti i romanisti che, nel cuore, non ci hanno mai lasciato.
Paolo Marcacci 
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