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CORRIERE DELLO SPORT. Dirigenti, tecnico e nuovi si devono “romanizzare”

La Roma in allenamento

(L. Cascioli) – E’ accaduto quello che si temeva. E così la sconfitta è arri­vata con la puntualità di certi starnuti che si annunciano nel naso. Si diceva che a questa Roma-baby bisogna sa­per perdonare tutto e forse questa è stata una delle ragioni di fondo per cui si è perso il der­by.

Per i giallorossi era la prova più osti­ca della loro gio­vane espe­rienza agonisti­ca, con­tro una Lazio presa a schiaffi per quattro volte di seguito in campionato e ferocemente determi­nata. Troppo teneri i giallorossi, troppo psi­cologicamente impre­parati. E’ probabile che prima o poi anche il modo di giocare certe partite sino all’ultimo secondo entri nel reper­torio di Luis Enrique, specie con la scelta di uomini meno emotivi e più disciplinati. Resta il fatto che la Lazio non poteva perdere un’altra occasione per dimo­strare di esistere anche sul palcoscenico calci­stico romano e per riu­scirvi si è affidata a quel vecchio filibustie­re di Klose che è anda­to sempre all’arrem­baggio di tanti vascelli avversari e che ritrova la sua vera atmosfera agonistica nei duelli corpo a corpo nelle aree di rigore. La sconfitta nel der­by ha purtroppo dimo­strato che certe partite vanno preparate so­prattutto sul piano di una vigile e quasi ne­vralgica attenzione. Troppi erano convinti che da questa Roma, che sta emettendo i suoi primi vagiti, non si dovesse pretendere troppo.

E le due vittorie consecutive che aveva­no preceduto il derby avevano fatto trattene­re a stento l’ammirazio­ne. Ma nel calcio l’arte di vincere è la più effi­mera e deperibile delle arti, soprattutto se si af­fida alla memoria con­solatoria di quello che è successo. Le vere mo­tivazioni nascono sem­pre dalla fame. Questi ragazzi che vestono con una certa eleganza la maglia giallorossa de­vono avvertire non solo il piacere di vincere, come la realizzazione di un bel sogno, ma co­me una fame dettata da una vera, autentica ne­cessità biologica. Per adesso sono solo stu­denti che devono entra­re ancora nella vita. Un derby ogni tanto si può anche perdere se poi serve da lezione e se non si dimenti­ca chela Roma è soprat­tutto uno stile e una filo­sofia di vita nell’affrontare il calcio con allegria e con quello spirito di appartenenza che riesce a superare con leggerezza anche le più forti delusioni.

Altre squadre hanno bisogno solo di vincere per sen­tirsi grandi. La Roma, sin dai suoi primi passi, è stata riconosciuta grande dalla sua città per definizione, per il prestigio del nome, per aver rappresentato su­bito agli occhi di tutti il simbolo della romanità. Ma non bisogna appro­fittarne. Il progetto adesso c’è. I giocatori per avviarlo ci sono. C’è solo bisogno di ricreare al più presto possibile, attorno a questo nu­cleo, lo spirito giusto per rendere più fattiva tutta la politica tecnica. E la formula è sempli­ce: questa Roma non deve essere né ameri­canizzata, né spagno­lizzata. Sono i nuovi di­rigenti, il nuovo allena­tore e i nuovi giocatori che devono al più pre­sto romanizzarsi. Si potrebbe recrimi­nare su alcuni episodi chiave che hanno con­dizionato l’esito della partita, ma sarebbe po­co sportivo e soprattut­to poco dignitoso, come sarebbe poco sportivo trattenere l’ammirazio­ne per l’impresa in ex­tremis realizzata dagli avversari, che si batto­no con rinnovate ambi­zioni per il prestigio del calcio romano. Ma l’er­rore più grande sareb­be quello di non farglie­la pagare salata alla prima occasione possi­bile.

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