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Sabatini, memorie di un mercante di calcio

(E.Audisio) – È un trafficante di uomini del ventunesimo secolo. Compra, vende, presta. La sua merce è ovunque, ma il viaggio è scovarla, proteggerla, farla arrivare a destinazione. A lui il termine trafficante non piace, perché non è una tratta degli schiavi quella dei million dollar baby. Preferisce dire che il suo lavoro è simile a quello del pizzicagnolo: togli qui, aggiungi là, una contabilità fatta di acrobazie spericolate, ma anche di calcoli sulla bilancia. Walter Sabatini, 62 anni, è un direttore sportivo in pausa lavoro. Si è dimesso dalla Roma a ottobre, dopo cinque stagioni. «Ho tanto e troppo tempo libero, non so che farmene, tutto si è dilatato, soprattutto il vuoto».

Senza calcio è un ferito a morte che fatica a cicatrizzare. Come tutti quelli abituati a giocare in controtempo, non sa ingannarlo. E questo anche nel calcio è il mese dei saldi, del mercato d’inverno. Il ds è quello che deve mediare tra le voglie dell’allenatore e le finanze della società. È quello che va a fare la spesa per il grande chef con i soldi del padrone del ristorante, per cercare di soddisfare i palati dei clienti. Sabatini è tra i più famosi. Ex giocatore, ex allenatore, una compagna, lettore incallito, fumatore non pentito, due orologi al polso in modo da avere il fuso sudamericano sotto gli occhi, viso sempre un po’ sgualcito, ora segue le partite in bagno, dove può accendere sigarette senza affumicare Santiago, il figlio. Per come porta la cicca in bocca è un HumphreyBogart riveduto e corretto. Lui si definisce «un europeo crepuscolare e solitario».

Difficile fargli confessare vizi e virtù di una professione che trasferisce ragazzi, spesso baby minorenni, da un continente all’altro. Gestisce un capitale umano, molto redditizio e senza confini: i giocatori di pallone. È un cacciatore di piedi più che di teste. E un distributore di futuro. Non è il solo. La sua professione è quella di direttore sportivo e il mercato in cui opera muove in Italia circa 696 milioni, mentre in Premier League la cifra supera il miliardo. Non c’è crisi nel suo mondo, il calcio ha bisogno di forza-lavoro che assolda ovunque: Africa, Sudamerica, Asia, Europa. Una volta si emigrava in nave per cercare lavoro, oggi basta prendere un aereo e saper giocare a calcio. Sabatinida tutti è considerato il maestro delle plusvalenze, il signore dei prestiti e dei riscatti, l’uomo dei blitz del mercato: alla Roma ha lasciato un patrimonio di 192,6 milionimentre quando arrivò nel 2011 il valore della squadra non superava i 37 milioni di euro. Un ds oggi deve acquistare a poco, valorizzare, vendere a cifre più alte dopo aver ammortizzato parte dei costi. I soldi, certo, i bilanci, gli introiti, le commissioni, ma anche il fiuto, la sensibilità, quella capacità di riconoscere la luce quando è ancora solo un raggio. Il suo romanzo è il calcio, infatti lui che è estremo e coerente, testardo fino alla distruzione, lo scrive con sofferenza e tormento, anche con errori. Come quelli che patiscono la passione deve mettere distanza: mai in panchina a guardare le partite. Osservava gli allenamenti della Roma dall’alto, dal tetto di una palazzina dove per paura che lui cadesse hanno costruito una ringhiera. Ha i suoi informatori, i suoi scout, ascolta tutti, non ha pregiudizi: alla Roma ha portato una ragazza di 24 anni, sissignori, una donna, per segnalare i giovani talenti Under 19. «Molto preparata, raro che sbagliasse».

Ascolta tutti, anche i tre che lo informano sui movimenti in Argentina, ma alla fine è lui a fare le verifiche e a decidere l’affare, destreggiandosi tra procuratori, società e altri intermediari. In Sudamerica infatti capita spesso che la proprietà dei diritti sportivi, il vecchio cartellino, sia multipla. Ha vagonate di vhs negli armadi, perché prima per valutare un giocatore avevi bisogno che qualcuno da oltreoceano ti mandasse i filmati mentre oggi sul computer puoi visionare tutto e tutti e il web ti scarica ogni tipo di rabona. Basta un clic per visionare uno dei 330 mila calciatori del mondo, tutte le volte che ha vinto o perso, fatto un assist, usato il sinistro. È una manodopera qualificata che fa gola a tutti. Ma Sabatini il termine trafficante proprio non lo accetta. «Noi alla fine facciamo del bene. Famiglie che non avrebbero da mangiare trovano un aiuto grazie al calcio. Gervinho, della Costa d’Avorio, a Roma aveva una famiglia mostruosa, manteneva 25 persone, in Africa è così, se uno ha soldi e successo si trascina dietro una comunità. Quando si parla di calcio tutti vedono malaffare, intrighi, sfruttamento, dove invece c’è solo un’opportunità di lavoro. C’è sempre un certo razzismo culturale: se arrivi alla Scala per studiare danza sei un artista promettente, che sfrutta un’occasione, se arrivi dal Ghana in Italia per giocare a pallone sei vittima di chissà quali abusi, mazzette e delinquenti».

Se tratti ragazzi cercando Messi la prima persona da convincere in famiglia è la mamma. 
«E non tutte sono uguali. C’è quella preoccupata dell’ambiente dove crescerà il figlio e quella che si vuole impicciare della sua gestione tecnica. L’argentino Javier Pastore lo volevano tutti. Il suo procuratore mi ripeteva che non era un sogno per me. Ho bivaccato per giorni a Buenos Aires e ho convinto la madre, Patricia, che Palermo, non una metropoli, poteva andare bene per la crescita del suo ragazzo. Pastore arrivò in ritiro in montagna, direttamente dall’aeroporto. Il presidente Zamparini mi chiese di farlo giocare cinque minuti, di metterlo in campo per accontentare i tifosi, giusto una breve apparizione. Pastore, anche se stanco, fece una giocata straordinaria: stop e tunnel. Io dovevo andare in bagno, mi diressi nello spogliatoio, trovai Zamparini che piangeva dall’emozione davanti al bel gesto di Pastore. Si complimentò anche con me, l’unica volta».

Dalle mamme apprensive a quelle terribili. Adrien Rabiot, centrocampista mancino francese, giocatore del Psg.
«Trattativa complessa, nascosta, dovevo far perdere le mie tracce alla stampa. Volo a Genova e da lì in auto sulla costa. La trattativa è quasi conclusa, siamo a buon punto, manca solo l’ultimo accordo con la madre che è anche la sua procuratrice e che è molto arrabbiata con il Psg, che secondo lei non valorizza il figlio. L’appuntamento è a pranzo. Al parking c’è l’altro figlio di Veronique che ci aspetta al termine di una strada sterrata, un tipo inquietante, viene dalla Legione straniera, è seduto su una sedia, in un parcheggio dove non c’è nessuno. Scena da film. Parliamo, l’accordo è fatto, lei, la madre, prima di alzarsi aggiunge una cosa, nessuno mi traduce, ma io intuisco, chiedo conferma, mi infurio. Urlo: come si permette? E me ne vado. La madre voleva parlare con Garcia. Mai e poi mai. Se concedi a una madre il tu per tu con l’allenatore in un attimo te la ritrovi nello spogliatoio».

Poi ci sono i trucchi o le astuzie. 
«Sono a Londra. Alla Roma è arrivato Rudi Garcia che mi chiede Gervinho, gli dico no, anzi glielo faccio dire da Massara, visto che non parlo francese. È l’unica richiesta che mi fa Garcia, non chiede altro. Sono in imbarazzo, ma insisto, non voglio prenderlo. Faccio la trattativa con l’Arsenal e gioco spudoratamente al ribasso, sperando che rispondano no. Vado a cena in un ristorante italiano, si affaccia il cuoco, mi riconosce e mi chiede: non mi dica che è qui per comprare Gervinho? Anche lui, non è convinto. Però poi Gervinho lo prendiamo e quando il giocatore va bene do pubblicamente credito a Garcia della bontà della sua scelta».

E c’è l’attimo fuggente quando la porta sta per chiudersi. 
«Pjanic è stato una corsa contro il tempo. Lo prendiamo nel 2011 a 10 minuti dalla chiusura del mercato, a un passo dal perderlo. In quei momenti tutto corre veloce: il cuore, le vibrazioni, lo stress. È un’operazione avventurosa, mando un aereo privato a prenderlo per le visite mediche, con Tempestilli e Fenucci che sudavano, perché in quei momenti i collaboratori devono trovare i milioni, le coperture finanziare, il consenso della società. Radja Nainggolan, che era del Cagliari, è stata un’altra trattativa complessa, estenuante, bellissima, conclusa trovando una soluzione alle quattro e mezza di mattina, dopo una telefonata a Cellino e una notte problematica».

Infine, le visioni. Quando vedi qualcosa che non c’è e chissà se ci sarà. Però il tuo istinto e il tuo sangue fremono. 
«Erik Lamela, argentino. La prima impressione è stata quella di un carattere febbrile, di uno agitato, aveva 18 anni, passava in mezzo agli avversari come un puledro che scuote la testa in cerca di libertà. Ne ho visto anche i difetti, ma quella immagine era splendida. E sì, leggi la scheda tecnica, ma quello che vedono i tuoi occhi e quello che legge il tuo cuore nessuno lo metterà mai per iscritto».

Marquinhos, brasiliano, rivenduto al Psg per 32 milioni di euro. 
«La talpa è stato Simone Beccaccioli, videoanalista della Roma. Me lo segnala, io vedo un ragazzino di 18 anni, che in Brasile era riserva nel Corinthians, correre dietro una palla che sembrava persa, con quasi otto metri di svantaggio, recuperarla in scivolata, e poi esultare mostrando i pugni, con una rabbia da finale mondiale. Quella fame mi ha colpito, allora nessun difensore faceva quel gesto. Il giorno dopo mi chiama un agente e chi mi propone? Marquinhos. Io mi mostro scettico, gli dico che non lo conosco, di darmi tempo, faccio un po’ l’annoiato, ma dentro di me scoppio di contentezza, come sempre capita quando l’occhio va a tempo con la realtà».

L’affare mancato. 
«Gokhan Inler, svizzero-turco, invece mi è sfuggito. Questo per dire che non sono un genio. Il suo dvd è rimasto nascosto nella scrivania, mai visto. L’avrei preso, sì, ho perso io, ha vinto la mia disattenzione».

Il suo è un mondo diventato ormai monopolio di cinque-sei agenzie internazionali, fatto di segreti e bugie, di potenti alleanze internazionali. Il portoghese Mendes, l’inglese Barnett, l’italiano Raiola, l’albanese Fali Ramadani, l’argentino Marcelo Simoniani, il brasiliano Wagner Ribeiro, il rumeno Constantin Dumitrescu: tutto è nelle mani di questi signori del mercato, che incassano milioni e decidono asset. Sabatini invece voleva essere Gianni Rivera. 
«Se mi sono avvicinato al calcio è colpa sua. Mio nonno Livio lavorava alla fornace di mattoni di Marsciano, vicino a Perugia, ascoltava le partite con la radiolina e alla fine mi diceva: il Milan ha perso, però Rivera ha giocato bene. Avrò avuto 8 anni, mi prese la curiosità di questo Rivera, la tv era in bianco e nero, lo vidi, ne restai fulminato, da quel momento i soldatini, gli altri giochi, non contarono più nulla, buttai via tutto. Volevo essere lui. Avere la sua eleganza, il suo intuito, mi piaceva il suo modo di fingere di andare in una direzione per poi sceglierne un’altra».

Dice che il calcio inglese per chi fa il suo mestiere è quello forse meno limpido, perché ha più intermediari, e che in quello italiano, nel dare valore a un calciatore, contano ormai i commentatori sportivi che sottolineano certe giocate mentre ne oscurano altre, magari meno vistose.
«In più chi dà certe pagelle o esalta certi meriti ha tutta la settimana in video per ribadire la bontà della sua scelta. Il calcio è un gioco collettivo: conta chi la butta dentro, ma anche chi ti permette di farlo. Certi calciatori finiscono per essere vittime del loro personaggio: Osvaldo si è lasciato cucire addosso la fama del bandito-calciatore, dell’uomo che vive senza limiti, Balotelli ha creduto di avere un tempo infinito, invece ha perso stagioni importanti, ma a 27 anni può ancora riscattarsi».

Sabatini si è dimesso dalla Roma per difendere un sentimento dove convivono intuito, esperienza, sensazioni, e non solo calcolo statistico. 
«Non sono contro la scienza, la modernità, ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un sofware che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio non ci sto. Non si tratta di lottare contro Big Data o il Grande Fratello, i numeri sono utili, bisogna tenerne conto, ma l’intelligenza artificiale applicata al calcio ha bisogno di mediazioni. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi deve poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie. Ci vuole rispetto per ogni esperienza».

Lo scatto con cui corre fuori a fumare non è da Rivera. Però ai tifosi di quella che è stata la sua squadra ci tiene a dire:
«La Roma attualmente dispone di quattro centri di pensiero, di cui tre egregiamente funzionanti, a Roma, a Londra, a Boston e presumibilmente in Spagna. Quando tutto sarà convogliato in un unicum la Roma avrà un futuro opulento, anche se è consigliabile occuparsi di presente perché il calcio declina solo questo tempo e mi pare che la squadra attuale lo meriti e lo richieda».

fonte: Il Venerdì – Repubblica

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