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LA REPUBBLICA Roma, è qui l’incubo: umiliazione storica contro un Bayern stellare

Lewandowski
Lewandowski

(E.Sisti) – Lo spettro è tornato: 7-1. Per una notte la casa giallorossa ridiventa quel motel vicino alla palude, un luogo di ragnatele, apparizioni, spifferi, orrori. Ieri il capitombolo veramente non finiva più. La grancassa delle chiacchiere, delle speranze e dei complimenti deve aver prodotto un gigantesco stordimento collettivo. Non c’è altra spiegazione a un passivo tanto mortificante. Perdere sì, perdersi no. Proprio quando si pensava che i tempi del 7-1 di Manchester fossero stati definitivamente tumulati nella cripta dell’era Spalletti, la realtà ha restituito al mondo giallorosso un’altra serata, casalinga per di più, in cui la differenza è apparsa abissale, per concentrazione complessiva, si potrebbe quasi dire per cultura. Una sconfitta interna che ne richiama una lontanissima, col grande Torino.

Il Bayern ha camminato sui resti di una squadra che non ha mai capito dove si trovasse, come il Brasile contro la Germania nella sfida ai mondiali. C’era solo tanta gente da soddisfare intorno. Totti non trovava posizione, Iturbe era in quella sbagliata, Nainggolan appariva circondato, Pjanic risultava assente, a centrocampo (con De Rossi troppo arretrato) si giocava in 6 contro 3, mentre in difesa Manolas lasciava agli avversari ogni possibile scelta di vita (dopo averla negata a tutti finora). Per non parlare dei tremori di Yanga e dell’inadeguatezza di Cole (che però Garcia avrebbe dovuto prevedere). Erano inferiori in tutto, anche nella profondità degli sguardi. Figuriamoci nel sistemarsi per un’azione e nel risistemarsi dopo averla sbagliata. E poi troppo lenti nel capire quale dei cento in bianco fosse Götze, quale Bernat, quale Müller e perché mai quel maledetto pelato sulla destra avesse così tanta energia e lucidità da sventrare da solo la fascia sinistra della povera struttura giallorossa, armata con le fionde.
La Roma ha creduto di trovarsi al tavolo giusto per una manciata di secondi: il tempo di capire che Ashley Cole non sarebbe mai stato in grado di opporsi ad Arjen Robben, in qualunque disciplina, nemmeno a dama. Cole avrebbe potuto cancellare i sospetti nel primo uno contro uno (9’): invece ha pensato bene di confermarli spingendo Robben proprio sul sinistro e aprendo una falla che non si sarebbe più richiusa. Un gol, Robben, due, Götze, tre, Lewandowski, quattro, Müller, cinque, Robben. Non importa come. E nel secondo tempo, impietosi, ci si sono messi anche Ribéry e Shaqiri, appena entrati (preceduti dal palo e dalla rete di Gervinho). La collana dell’impotenza.
Era impensabile una caduta simile, generale, di sistema. La Roma è finita sotto una pressa. Quella pressa era la semplicità paradisiaca del Bayern di Pep Guardiola, che ai giallorossi sarà parso un mistero calcistico, devastante, minaccioso ma anche pulito, carico di messaggi positivi. La Roma ha dimostrato che un peso emotivo di questa portata può deformarla sino a farle gracchiare calcio. Era entrata in campo su un tappeto di parole rubate a un altro vocabolario (gioia, piacere, fantasia, vincere), forte dell’esperienza dell’Etihad. E’ uscita senza aver mai sfiorato né gioia né piacere, fra gli applausi più veri e più tristi di sempre dei suoi tifosi. Forse la Roma non è così sideralmente distante da Guardiola. Però ieri il Bayern si è allenato e la Roma si è allentata. La caduta, per quanto pesante, vale tre punti come un qualsiasi 1-0 ottenuto con un autogol e il Manchester City ha pareggiato a Mosca. Tutto vero, ma purtroppo sono consolazioni da quattro soldi. Resta l’imbarazzo. Che diventa stordimento.
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