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CORRIERE.IT Tavecchio, Lotito e Ferrero. Al calcio italiano restano solo le gaffe

Ferrero
Ferrero

Il primo che va ricordato è Carlo Tavecchio, con la sua celebre frase: «Optì Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio». Non solo perché è stato il primo in ordine cronologico (la gaffe risale al 26 luglio scorso), ma perché l’infortunio verbale non gli ha impedito di diventare il nuovo presidente della Federcalcio, cioè il capo di tutto il movimento italiano. Il secondo che va ricordato è il grande elettore di Tavecchio, Claudio Lotito. «Il problema con Marotta è che con un occhio gioca a biliardo e con l’altro mette i punti», disse dell’amministratore della Juventus il 26 settembre al termine di una discussione in Assemblea di Lega. Poco meno di un mese dopo, ecco arrivare il presidente della Sampdoria Massimo Ferrero, che a «Stadio sprint» su Rai2 si vanta di avere consigliato all’ex proprietario dell’Inter Massimo Moratti di cacciare «quer filippino»(che sarebbe il successore di Moratti, l’indonesiano Erick Thohir).

Nostalgie

Un grande classico della discussione sul calcio è rimpiangere i bei tempi in cui i presidenti del calcio erano figure più folcloristiche e genuine, come Costantino Rozzi dell’Ascoli, Romeno Anconetani del Pisa, Antonio Scibilia dell’Avellino. Chissà perché, visto che i tre esempi degli ultimi mesi dimostrano che non siamo così lontani da quei tempi. E che il «calcio moderno» contro il quale si scagliano gli ultrà di tutta Italia non è così plastificato, anonimo, finto e asservito agli ipocriti (e politicamente corretti) voleri delle televisioni.

Bilanci

Insomma, forse non ce siamo accorti ma il calcio italiano sta piano piano tornando indietro di almeno trent’anni. Con una differenza: che negli anni 80, almeno, era un calcio capace di vincere un Mondiale e di attirare i giocatori migliori del mondo. Rispetto ad allora, dunque, l’unica cosa in comune rimasta è la poca dimestichezza (diciamo così) di alcuni suoi dirigenti con alcune tematiche delicate, tipo il razzismo o il rispetto della diversità. Perché di certo Tavecchio, Lotito e Ferrero non sono razzisti, ma hanno rilasciato dichiarazioni che hanno fatto credere che lo fossero. Il che non fa tanta differenza. Perciò, quando ci si interroga sulla crisi del calcio italiano, forse è iniziato il momento di non guardare solo ai bilanci, ai pochi introiti del merchandising e alla proprietà degli stadi. Ma di partire dalla qualità media dei dirigenti (o perlomeno di alcuni, non secondari).

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