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CORRIERE DELLA SERA Il crollo del sistema-calcio. Prandelli: “Non ho mai rubato i soldi dei contribuenti”

C. Prandelli
C. Prandelli

(A. Cazzullo) Il calcio italiano in due ore perde il Mondiale, il c.t., il presidente, il giocatore più rappresentativo — Pirlo all’ultima partita in nazionale —, l’eterna speranza mancata: Balotelli in lacrime a bordo campo. Ma è l’addio di Cesare Prandelli (e di Giancarlo Abete) a dare il senso di un fallimento senza rimedio. Il commissario tecnico ci pensa un quarto d’ora. Quando gli chiedono se intende dimettersi rinvia la risposta. Poi le prime reazioni che rimbalzano dall’Italia lo convincono: «Non ho mai rubato soldi dei contribuenti. La responsabilità è mia. Il progetto tecnico è fallito. Mi dimetto». È l’ora dei rimpianti, quindi dei «se».

Se Balotelli e Marchisio non avessero avuto l’ingenuità, o se preferite la scarsa intelligenza, di commettere falli più scomposti che cattivi sotto gli occhi dell’arbitro. Se l’arbitro avesse visto un gesto meno visibile ma più grave, il morso di Suarez a Chiellini, che farà molto più male a chi l’ha commesso: il centravanti ha dimostrato di essere un fortissimo calciatore, non un campione. Se la federazione e lo sport italiano avessero più peso politico. Se gli azzurri avessero spinto per chiudere una partita di cui avevano il controllo. Se fossero stati teste di serie, evitando il girone più difficile del Mondiale. Se non avessero perso prima Montolivo poi De Rossi. Se non avessero sopravvalutato le proprie forze dopo la vittoria con l’Inghilterra. Se non si fossero complicati la vita con la prestazione disastrosa contro la Costa Rica. Ognuno di questi «se» contiene un frammento di verità. Ma i dettagli non possono farci perdere di vista il quadro d’insieme: il fallimento non solo di una squadra, ma di un movimento sportivo. Lo dice anche Buffon: «L’arbitro ha sbagliato. Però non può essere un alibi».

Italia-Uruguay è stata la partita più brutta vista fin qui in Brasile. E già questo dice molto. Intensa, ma nervosa, spezzettata, sotto ritmo; mal giocata, mal diretta. L’Italia ha tenuto palla a lungo ma non ha mai tirato in porta. L’Uruguay, che doveva vincere e ha giocato mezz’ora con un uomo in più, ha impegnato Buffon due volte. Gli azzurri, dopo l’incredibile passaggio a vuoto di venerdì scorso, stavolta c’erano, a parte gli attaccanti. Dopo l’espulsione di Marchisio hanno reagito, in particolare i veterani Pirlo e Buffon: «Tutti abbiamo dato tutto — dice il capitano negli spogliatoi —. Ma c’è chi può dare di più, chi di meno». Alla fine l’esito e la sostanza del nostro Mondiale confermano la mediocrità del nostro calcio, da anni assente nelle fasi finali della Champions, che appena crea un talento lo esporta all’estero, che non esprime una propria cultura calcistica e un proprio modulo tattico come in passato. E finisce inevitabilmente per rispecchiare il momento difficile di un Paese che sembra aver perso la fiducia in se stesso fino all’autodenigrazione. Prandelli paga per tutti. Ma non è un capro espiatorio. Ha le sue responsabilità, ovviamente. Ora gliele ricorderanno tutte. Ha cambiato quattro metodi di gioco in tre partite: una punta sola contro l’Inghilterra, quattro nel secondo tempo con la Costa Rica, due oggi, poi di nuovo una sola con la sostituzione di Balotelli (ma con la difesa a tre). Ha insistito su Mario, che si è rivelato non all’altezza né sul piano tecnico né su quello del comportamento. Ha aperto il ritiro a mogli e fidanzate. Prandelli insomma ha corso dei rischi; il risultato finale li trasforma in errori. Aveva un contratto per altri due anni; ma ha capito che la pressione su di lui gli avrebbe reso la vita impossibile. Alla prima difficoltà avrebbe avuto tutti addosso. E ha preferito giocare d’anticipo. L’atmosfera della vigilia non era certo di fiducia. Prima della partita gli azzurri si abbracciano nel sottopassaggio tipo condannati a morte. Buffon li rincuora, tira anche uno schiaffetto a Darmian. Lo stadio è quasi tutto uruguagio, le rare grida «Italia-Italia» sono dei brasiliani. Sembra quasi mettersi bene: Bonucci scherza con un sombrero il temuto Suarez, Verratti irride Cavani con un colpo di tacco. Proprio il ragazzo abruzzese è forse l’unica nota positiva della giornata: un talento che forse non a caso non ha mai giocato in serie A, è passato dalla B alla Champions, sottratto dal Paris Saint- Germain ai club italiani, così come il Borussia Dortmund ha ingaggiato Immobile, rappresentato da Alessandro Moggi dietro il quale si intravede, pure nella foto del brindisi sull’aereo dopo la firma del ricco contratto, l’ombra del padre Luciano. Ieri Immobile non l’ha vista quasi mai.

Però la grande delusione è senza dubbio Balotelli. Scarico nel rincorrere il primo lancio senza riuscire a tenere la palla in campo, senza equilibrio nell’unico tiro verso la porta, inopportuno sull’ammonizione che costringe Prandelli a sostituirlo per evitare di restare in 10, anzi in 9. La dea del calcio ha restituito un’estrema chance a Cassano, che si è mosso meglio rispetto al venerdì nero con la Costa Rica, ma non ha inciso. I migliori sono stati i veterani, Pirlo e Buffon, che hanno tentato di trasmettere alla squadra la loro energia. E Barzagli, che da due anni gioca nonostante i tendini malati, e in Brasile non ha saltato una partita. Prandelli li ha ringraziati. Poi ha deciso: «Rassegno le dimissioni». Anche il c.t. esce ridimensionato dal disastro complessivo. Ora gli rimprovereranno di tutto, anche aver voluto il codice etico, anche non aver trasformato calciatori mediocri in fuoriclasse. Difficilmente potranno accusarlo di non essersi assunto le proprie responsabilità. «La sua decisione conferma il suo spessore umano» dice Buffon. Si torna a casa dopo tre partite, come in Sudafrica. C’è una squadra — e una federazione — da ricostruire, un movimento da ripensare. Si spera nelle nuove generazioni che avanzano, si pensa ai giovani che tra quattro anni indosseranno la maglia azzurra. E ci si ricorda di Borges: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio».

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