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CORRIERE DELLO SPORT La rivoluzione di Pallotta

Jim Pallotta

(M. Evangelisti) – Lo stadio che James Pallotta vuole o sogna, a seconda di quanto si sia ottimisti sulla sua effettiva realizzazione, è in un certo modo simile a quello che ieri ha ospitato l’incontro tra la Roma e la selezione del campionato statunitense. «Un impianto fantastico con un’atmosfera straordinaria». Lo Sporting Park di Kansas City è bello nella forma e funzionale nella sostanza, ma già sappiamo che lo stadio di Roma deve richiamarsi alla storia, alla leggenda e a quel Colosseo che i fan americani da giorni stanno minacciando di smontare in novanta minuti (riferendosi naturalmente alla partita di ieri sera).
E’ nella tecnologia e nella luminosità che lo stadio della Roma dovrebbe richiamarsi a quello del Missouri. Seggiolini ribaltabili, visibilità perfetta da tutte le zone, una modularità completa: curve, peraltro diritte, riservate a quello che in Usa sarebbero l’equivalente dei nostri ultrà e sono tranquillissimi tifosi abituali; tribune per le famiglie e al di sopra due diversi livelli di palchi costosi e lussuosi. (…)

SHOW – (…)E che parte dal gioco. Quando Pallotta sostiene di aver scelto Garcia personalmente non si vanta invano. Certamente si è lasciato consigliare da Sabatini e da altri esperti di calcio pratico, ma nel tecnico francese ha trovato quello che cercava: un uomo capace di dare alla squadra un’identita o di dilaniarsi nel tentativo, un allenatore che porta con sé un calcio riconoscibile. Ciò di cui i fan statunitensi si sono preoccupati quando hanno scoperto che sarebbe stata la Roma a giocare l’All Star Game è di vedere una squadra praticare il calcio che il luogo comune, purtroppo universale, considera come italiano.

IL TOCCO – Non è più così da tempo, ammesso che lo sia mai stato. E’ vero però che da quando gli americani hanno preso possesso della Roma il tentativo, magari sin qui fallito, è stato timbrare la squadra con un pensiero, con un marchio immediatamente individuabile. Garcia ha questo tocco.(…)
Infine, serve una teoria economica simile a quella del tetto gli ingaggi statunitense: 2,8 milioni di stipendi per squadra, con tre giocatori (detti “designati”) che non vengono conteggiati. Henry per esempio guadagna 5 milioni di euro.
E’ tutto in evoluzione. Ogni tentativo di cambiare la mentalità corrente lo è. Se gli americani riusciranno a convincere la parte italiana della società che la loro visione è quella giusta la Roma progredirà. Dovranno convincere anche Roma città che gli stadi-casa sono indispensabili al vivere civile. Non è retorica: attorno al gioco sono state costruite intere comunità, intere culture.
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