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CORRIERE DELLO SPORT Roma, serve subito un capo

Baldini e Pallotta

(G. Dotto) – Poche storie. Alla malaticcia Roma di questi tempi manca disperatamente un leader. Più di un leader, un capo. Unico, deciso, inequivocabile. Chiamatelo come volete, presidente, dirigente, allenatore, ma questo serve. Un leader che abbia la voce, la postura e l’autorità del leader. Che senta il peso, ma anche l’onore e la felicità di esserlo. Che sia capace di ascoltare la voce dei tifosi. Non quella delle radio o dei tweet, ma la voce che non parla. Quella che tace perchè non trova le parole. Perché, si sa, quello che non diciamo, lì è l’essenziale. E l’essenziale, oggi, è che il tifoso della Roma è smarrito. Di più, sfiduciato. Non perché perde, ma perché non sa dove va. (…) Che cosa significa reggere le magnifiche e fin qui non progressive sorti di un’impresa chiamata Roma?

Significa prima di tutto sapere che il “sentito” della gente è parte integrante del business. Che la sensibilità del fornaio o l’umore del barista sotto casa sono voci attive o passive del bilancio. Che tutto il circo, stadi, marchi, spot, sponsor e partner, esiste solo in quanto si regge su questa labilissima materia che è l’investimento emotivo della gente. Finisce quello, finisce tutto. (…) A questa Roma così insopportabilmente fragile manca un leader talmente superbo, sfrontato e romanista da impedire a Totti e compagni di sfilare tra due ali di plaudenti e strafottenti laziali.
Lo sento già il blabla che replica, l’attentato, lo “sfregio allo sport”, eccetera, ma Totti che sfila a capo chino, da perdente, sotto lo sguardo di Lotito e Radu ma, peggio ancora, sotto lo sguardo dei suoi tifosi, si chiama in un solo modo: gogna. E la gogna, nella memoria di chiunque, è per sempre. (…) Il derby a Roma ha le stesse barbariche risonanze di un palio a Siena, non ammette finzioni. E’ così, o non è.Questa Roma debole e confusa ha bisogno di un “padrone”, di un De Laurentiis che decide, quando è il caso, di non mandare la squadra a fare la damigella di una vincente che non si percepisce come tale. Un capo che sceglie di scagliarsi contro un arbitro, non quando sbaglia ma quando lo fa con la sfottente arroganza di certi arbitri. Cafone, antisportivo? Tutto quello che volete, ma è questo che fa l’appartenenza. Il calcio è questa cosa qui. La Roma è questa cosa qui. Dino Viola e Franco Sensi erano questa cosa qui. Consegnarsi alla sacrestia dei codici etici o al cliché salottiero delle anime belle equivale a prendere un indiano nativo del Dakota e travestirlo da Bing Crosby.

Un leader vero, che non ha bisogno di farsi raccontare cos’è l’orgoglio romanista, non lascerebbe in queste ore diffondersi la mortifera sensazione che la Roma Calcio stia aspettando i comodi del Multidente Furbacchione Signor Conte Allegri (ma siamo così preistorici da non capire che la sua non è una voce da leader e che se i giocatori lo amano tanto, a cominciare da Balotelli, questa cosa è un po’, molto, sospetta?). E’ così difficile intercettare il subliminale insulto che passa da Milano a Roma di quell’immagine di Allegri e Galliani, colti nell’intimità a due di una cena in cui mancava solo il lume di candela? Siamo passati dalla diluviante prosa visionaria del “Cosa saremo” al silenzio del “Non sappiamo più chi siamo”. Il silenzio, oggi che la Roma geme, non sa e non capisce, è debolezza. Un capo, oggi, saprebbe come parlare al tifoso per rincuorarlo senza risultare falso o retorico. Avrebbe detto parole forti sulle beghe di Trigoria e i capricci di Osvaldo. Lo avrebbe difeso da se stesso. Avrebbe speso una parola, o forse due, ma definitive, sullo schifoso linciaggio in atto da certa suburra contro Daniele De Rossi, uno che forse si è smarrito come calciatore, ma non si è mai smarrito come uomo e come bandiera. E quella sciarpa mentecatta poi. “Finale Tim Cup: io c’ero”. In vendita on line fino a poche ore fa. Un capo vero l’avrebbe sbranata a morsi un secondo dopo l’ultimo fischio di Orsato.

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