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DOPO PARTITA La lettura dell’incontro di Paolo Marcacci

Tachtsidis-Osvaldo-Totti

Il sole gelido di Bologna proietta ombre rigide come stalagmiti sul terreno del “Dall’Ara”; come se il clima riproducesse l’effetto delle parole di Zeman ieri in sala stampa. Tra dubbi e propositi vanno in scena innanzitutto le facce, a cominciare da quella del boemo, imperscrutabile come da copione, passando per quella di Osvaldo, che sembra voler trasmettere carica a chiunque gli capiti a tiro prima del calcio d’inizio, per finire con la serenità sempre e comunque pittata sulla bella faccia del Capitano. Una serenità che sembra innanzitutto contagiare le geometrie e la visione di Tachtsidis, protetto dal moto perpetuo di Florenzi fino ai due terzi della gara e di Bradley fin dentro al tunnel che porta ad una doccia più meritata di altre, anche per scrollarsi di dosso le schegge dei legni colpiti da Diamanti. In un finale in cui, comunque, è stata la Roma quella che ha riempito di più il campo, con la voglia innanzitutto di invertire il trend del duemilatredici, fatto di pietanze scialbe nei secondi tempi dopo una prima portata ottima e abbondante. La partita è stata gravida, di corsa e occasioni, di accorgimenti tattici e tasso tecnico, soprattutto dalle due cintole in su; di errori anche, forse più evidenti in area giallorossa, il che spiega il roboante pareggio a dispetto di una mole di gioco superiore e di una ovvia qualità complessiva entrambe a vantaggio della squadra giallorossa. Volano calci, in mezzo al calcio, non sempre Giannoccaro è nei pressi e quasi mai quantifica gravità e scompostezza, così come non individua un plausibile rigore sullo zero a uno; succede. Alla Roma un po’ troppo spesso. Ogni volta si rispolverano considerazione sulla mediocrità complessiva della classe arbitrale. Basta? Il Totti di oggi potrebbe far pensare ad uno che abbia scelto di arretrare il proprio raggio d’azione: sbagliato, basta osservare con più attenzione per scoprire che lo ha semplicemente ampliato, cercando l’ovunque in cerchi concentrici di campo calpestato, inventando di prima rovesci di gioco che se tutti fossero all’altezza questo di oggi potrebbe diventare un pomeriggio di calciotto di quelli in cui qualcuno a un certo punto dice “Rifacciamo le squadre…”. Non tutta la Roma ha i suoi giri nelle gambe, questo apre scenari di considerazioni anche amare, oltre che ovvie: ci sono forse due Roma, una che asseconda lavoro e spartito e un’altra che, per così dire, va a rimorchio della prima? Che non crede al progetto tecnico (da non confondere con l’altro) con la stessa dedizione? Ognuno si faccia la propria idea, che magari s’è già fatta, fatto sta che tutto ciò che potenzialmente questa squadra ha prodotto circa il “come” sarebbero potute terminare la maggior parte delle partite ha conosciuto quasi sempre un epilogo determinato da errori singoli, amnesie di reparto, cali di tensione percentuale riguardanti una parte cospicua della squadra e così via, in una città dove la dietrologia fiorisce sul ciglio di ogni marciapiede, assieme ad ovvietà di ogni tipo. Cos’è che annacqua gli scorci di calcio spettacolare che non bastano a questa squadra a chiudere partite che riesce ad incanalare dall’inizio nel modo più giusto possibile? Non veniteci a parlare del portiere e non perché la questione non esista ma perché la problematica non nasce nel momento in cui arriva Goicoechea, era la stessa con Stekelenburg, spesso inquadrato in tribuna, soprattutto nelle tre occasioni delle segnature rossoblù. Come al solito, dunque, più rammarico che soddisfazione, più errori che cose riuscite, più supponenza che convinzione nei propri mezzi: qualcuno, ad esempio, sembra convinto di essere Beckenbauer e magari non lo è. Con una Roma che comunque è  stata più continua e più in partita, una strana partita, fino all’ultimo, pur con i tremori balistici causati dalle esecuzioni di Diamanti, monopiede ma che piede, accidenti. Fossimo nella dirigenza, piuttosto che puntualizzare rispetto alle dichiarazioni di Zeman, cercheremmo di fare il punto su ciò che a denti stretti ha detto il mister: nella differenza tra questi due atteggiamenti c’è la piega che possono prendere vari destini in questa stagione: quello collettivo della squadra e quello di almeno un paio di individui, tra quadri tecnici e dirigenziali.

Paolo Marcacci 
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