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IL ROMANISTA De Rossi patrimonio della Roma

Daniele De Rossi

(D. Galli) – È un figlio. Un figlio della Roma. Un figlio che ha commesso uno sbaglio, ha peccato per troppo amore, ha fatto male alla madre ma senza rendersene conto, o meglio sì, ma solo una volta che Rocchi aveva estratto il rosso. Sbollita la delusione per il derby, resta quella per il fuoco incrociato cui è sottoposto adesso Daniele De Rossi, prossimo alla cessione, anzi già ceduto, anzi ormai già a Parigi – dove Lavezzi lo corteggia: «Quelli bravi come lui al Psg piacciono molto» – oppure a Manchester, scelga lui, basta che ce lo tolgano di mezzo. Assurdo, ma questo è quello che si sente in giro oggigiorno. De Rossi è un valore della Roma. Assieme a Totti è un principe della romanità, è un vanto, è la rappresentazione vivente di quello che ogni romanista vorrebbe essere: un calciatore della Roma, il sogno di un bambino.

È bastato un derby, la fesseria di un attimo, per risentire la solita antifona, la nenia che accompagna i momenti peggiori di Daniele: diamolo via, è un problema, andava ceduto in estate, Baldini sbaglia a dire che valuta le offerte però sbaglia pure perché non le ha accettate. Basta dare uno sguardo a Facebook per rendersi conto che a Roma si legge e si sente questo e pure di più. De Rossi è un errore di gestione, un calciatore che non merita questa maglia. Folle, davvero. Un campione del mondo, vicecampione d’Europa, centrocampista e leader della squadra che per due volte ha sfiorato lo scudetto nelle ultime cinque stagioni, che ha alzato al cielo due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, vinta con un rigore calciato con la freddezza dei giusti. Lui. Proprio lui. De Rossi.

Dicono che ora sarebbe meglio venderlo a miglior offerente, al cammelliere parigino o a quello mancuniano. Ma anche no, tanto per usare un’espressione parecchio in voga. Uno sbaglio non inficia una carriera, fa male forse (anzi, di sicuro) al cuore del tifoso che la notte post-derby non ha dormito o ha dormito male. Poi però interviene la ragione, giunge il momento dell’analisi e a mente fredda uno si domanda: deve andare via? No. Anzi: ma anche no. Certo, è evidente, è sotto gli occhi di tutti, come il rapporto con Zeman non sia eccelso. Sostenere però che tra i due non ci siano stati punti di contatto è sbagliato. Innanzitutto, per le presenze in campo. Non è vero che De Rossi non gioca. Quando è stato al 100%, è stato escluso una sola volta: contro l’Atalanta all’Olimpico. Contro il Palermo al 100% non lo era, stava recuperando dall’infortunio alla caviglia. Poi, De Rossi preferisce il ruolo di centrale? E Zeman lo ha schierato centrale. È accaduto in tre occasioni: col Catania in casa, a Parma (dove Tachtsidis era squalificato, ma per esempio c’erano Bradley, che ha fatto l’intermedio e Pjanic, rimasto in panchina) e al derby, dove è stato preferito a Tachtsidis, il calciatore fino a quel momento eletto, il più regista tra i romanisti agli occhi del tecnico boemo. Per intenderci, per la partita più importante l’allenatore punta su De Rossi. Non sul centrocampista greco. Quindi, non è corretto dire che Zeman non vede De Rossi. Lo vede, anche se magari come intermedio. La questione va quindi spostata sul rapporto umano. Perché Zeman ogni tanto lo ha punzecchiato. «De Rossi? Se si fosse giocato il derby», ha detto il tecnico subito dopo il 4-1 al Palermo, «sarebbe stato in campo. Aveva comunque una distorsione alla caviglia, presa a Parma, e non si è allenato per tre giorni, è stato meglio farlo riposare». Senza contare le celebri dichiarazioni post Roma-Atalanta sul «mancato impegno».

Zeman ha spiegato ai dirigenti che si riferiva ai calciatori in assoluto, non a De Rossi o solamente a De Rossi. Equivoci, che chissà se sono mai stati chiariti fino in fondo con Daniele. Questioni di poco conto che però adesso vanno risolte. C’è una stagione da onorare, c’è una maglia da difendere, c’è un patrimonio da non disperdere. È la Roma, è De Rossi.


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