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AS ROMA Con Lucho non sarebbe successo

Luis Enrique

(P. Torri) – Con Lucho non sarebbe successo. Terza sconfitta nel derby, terzo derby finito in dieci, una valanga di gol subiti, una classifica che pure la scaramanzia condanna. Voglio provocare, allora, ribadendo: con Lucho non sarebbe successo. Sì, Lucho, Luis Enrique Martinez Garcia, l’asturiano che lo scorso anno aveva cominciato un percorso che poi ha preferito abbandonare. Vero, dopo una stagione ai confini del fallimento, ma proprio quei confini dovevano essere il primo passo del percorso. Che, si sapeva, sarebbe stato duro, tormentato, con inevitabili pedaggi da pagare. (…)

Non vuole essere un’accusa a Zeman, il cui ritorno ho accolto con il sorriso e l’inguaribile ottimismo di chi pensava fosse arrivata l’ora della sua definitiva rivincita. Semmai, questa nostalgia asturiana, vuole essere un dito puntato nei confronti della dirigenza. Che di errori, lavorando, non ne ha fatti pochi, ma il principale, a mio giudizio, è stato quello di provare a convincerci che si continuava sullo stesso percorso intrapreso dodici mesi prima con l’hombre verticalFalso. Gioco orizzontale Lucho, gioco verticale il boemo, possesso palla il primo, più palloni giochiamo e più ci divertiamo con il secondo. Sono due percorsi paralleli. Diversi. Passando da uno all’altro, non si prosegue, si ritorna al via.

E’ vero, è stato l’asturiano a dire arrivederci e grazie, bocciato dai risultati ma soprattutto da una piazza nel cui vocabolario la parola pazienza è stata da sempre cancellata, pazienza, soprattutto, quando si è all’inizio di un’autentica rivoluzione, societaria, tecnica, di giocatori. Non c’è dubbio, Lucho se n’è voluto andare. 

Fonte: Corriere dello Sport

(G. Dotto) – Almeno due partite ieriPrima e dopo il diluvio. Finisce una e ne comincia un’altra. Finché la palla corre c’è solo Roma. Se la palla non corre, non c’è calcio di Zeman. La squadra lo sa talmente bene che si deprime anche più di quanto sia necessario. Senza i suoi poteri magici, la palla-rasoio che va, taglia, verticale, maniaca, la squadra si accartoccia all’indietro, si rifugia in una casa che non è la sua. E frana. Non sa e non trova altro modo. Peggio del panico, è presentimento del peggio che prima o poi arriva, un fatalismo dell’ineluttabile. Il gol di Candreva, titanico ieri perché titanico, poveraccio, è lo sforzo di cancellare presso di sè ogni traccia del suo essere romanista, è uno choc anafilattico. Non solo te lo aspetti, non solo arriva, ma arriva in circostanze assurde. Assurdo è anche il secondo gol, assurdissimo il terzo. La faccia di De Rossi era allucinata già all’inizio e qui c’è ora, purtroppo, tutto il tempo di sanare quello che forse non è più sanabile. Zeman ha fatto il guaio, Zeman deve risolverlo.
Perché la Roma c’è. Sta arrivando. Si fa largo, faticosamente, a squarci, tra conati, impennate e tonfi, ma sta arrivando, ogni volta di più. Si è vista anche ieri, prima del diluvio.Sta mettendo a punto il suo capolavoro. Se riuscirà a sopportare la malasorte, gli arbitri, e soprattutto se stessa, la parte ancora malferma del suo giovane corpo, diventerà grandissima. Lo è già, ma ancora non lo sa.

Non datemi del pazzo. Dal derby di ieri la Roma deve uscire con grande ottimismo, se solo saprà andare oltre le apparenze.

Fonte: Corriere dello Sport

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