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CORRIERE DELLA SERA Zeman, filosofo della dismisura (con il tocco dell’epuratore)

Zeman

(A. Grasso) – Chi è Zdenek Zeman? L’allenatore più innovativo del nostro calcio, un filosofo del pallone o un equivoco vivente? Un bluff? Perché con l’allenatore boemo giocano bene le squadre di provincia e male le grandi? Com’è possibile che nella Roma epuri Osvaldo e De Rossi e questi invece, in Nazionale, vadano tranquillamente a rete? Zeman è uno di quei personaggi cui non si addicono le mezze misure, anzi la dismisura è la sua unica certezza, tale da destabilizzare le nostre certezze calcistiche. C’è chi lo ama follemente, ricordando gli anni di Zemanlandia, quando sulla panchina del Foggia l’allenatore mostrava un calcio spettacolare, e c’è chi lo detesta in sommo grado, a cominciare dal vasto popolo juventino, per via delle accuse di Moggi, a Vialli e ad altri bianconeri: “Per vincere a una società servono solo due persone, una esperta di farmaci e un’altra brava in matematica, che sappia far quadrare i conti”. Da allora, è entrato nel mirino.

Però la Roma, che con Zeman avrebbe dovuto fare il salto di qualità, delude, è in preda alle polemiche dal momento in cui l’allenatore ha sentenziato: “Non contano i nomi o le gerarchie degli anni precedenti, ma gli allenamenti: gioca chi pensa alla squadra e non a se stesso”. Parlava di De Rossi, ‘capitan futuro’.

Come ha scritto Alessandro Giuli, “il problema dell’A.S.Roma è che ha scelto Platone per la panchina, ma gli ha messo in rosa troppe stele senza cielo, e lo ha precipitato in un sistema solare irrancidito dalla consuetudine della peggio negligenza capitolina”.

Geniale è geniale: la scorsa stagione, con il Pescara in Serie B, ha mostrato per l’ennesima volta di che stoffa sia fatto il suo gioco offensivo e spettacolare. Scopritore di talenti e implacabile accusatore dei “poteri forti”, Zeman ha nei tratti somatici e nell’espressione del volto qualcosa di letterario, qualcosa che ne fa un personaggio tragico uscito dalla penna di uno scrittore praghese. Se non Kafka certamente Kundera: il protagonista entra in scena e intanto, a sua insaputa, gli cambiano la scenografia e lui si ritrova nel bel mezzo di un altro spettacolo.

Del resto, solo i grandi filosofi hanno il diritto di essere compresi.


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