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IL ROMANISTA Da Fuffo a Mattia, luci al Colosseo

Mattia Destro in azione

 (M.Izzi) Ho iniziato a pensare a questo articolo subito dopo aver visto una foto di Mattia Destro,giovanissimo, in maglia nerazzurra. La storia della Roma è semplicemente stracolma di talenti decisivi per le nostre fortune, che dopo aver iniziato la propria carriera nell’Inter o esserci transitati giovanissimi, sono stati lasciati partire con destinazione Roma. L’elenco, una volta riassunto, diventa francamente impressionante e lascia ben sperare per il proficuo inserimento della giovane punta giallorossa che proprio a San Siro, contro i colori nerazzurri sta per debuttare. Volete qualche esempio?

Partiamo decisamente con il botto parlando di Fulvio Bernardini. Dopo l’addio alla Lazio Fuffo trascorse due anni all’Ambrosiana. A Milano aveva uno stipendio da favola: 50 mila lire a stagione più tremila lire al mese di benefit. Bernardini strinse una bella amicizia con Cevenini, Pietroboni, Rivolta e naturalmente con il giovanissimo Peppino Meazza. Eppure, nel 1928, Renato Sacerdoti si mise in testa di riportare il più grande talento romano a casa e ci riuscì con un colpo da maestro. Ho sempre saputo che Bernardini, pur di tornare a casa, si accontentò di vedersi riconfermato il contratto meneghino senza una lira d’aumento, ma solo recentemente ho scoperto la cifra che servì a liberarlo dall’impegno con i nerazzurri: 100 mila lire. Per 100 mila lire l’Ambrosiana lasciò andare il più forte giocatore italiano degli anni ’30, un autentico suicidio.

Parliamo ora di Giacomo Losi, vale a dire il primatista di presenze in maglia giallorossa alle spalle di Francesco Totti. Prima di sbarcare alla Roma, però, Losi divenne, di fatto, un giocatore dell’Inter: ecco come lo stesso Giacomo mi ha raccontato quella vicenda, risalente al 1954: «Con i nerazzurri avevo disputato il torneo giovanile di Sanremo e 10 giorni più tardi un quadrangolare a Parma. Il tecnico Giovanni Ferrari era molto contento di me e sembrava tutto fatto. Comunque sia, al termine di quell’esperienza mi venne regalato l’intero completo: maglia azzurra con ricamato lo stemma sociale, pantaloni, scarpe da ginnastica, tutto. Alcuni anni più tardi, quando già giocavo in Nazionale capitai nella sede dell’Inter e incontrai il massaggiatore dei nerazzurri Tumela che era stato con me a Sanremo e ancora si ricordava di quelle mie belle prestazioni». Perché il tesseramento di Losi non sia stato perfezionato dopo quella prova così positiva è un mistero, fatto sta che la Roma s’inserì nella trattativa con la Cremonese e portò a casa il giocatore. Quando Losi venne convocato a Bologna per firmare il nuovo contratto rimase stupito nel non trovare un dirigente dell’Inter ma bensì Giorgio Carpi, plenipotenziario giallorosso, che gli schiuse le porte della sua carriera romanista.

Saltiamo di palo in frasca e arriviamo alla fine degli anni ’70. Nella semifinale del torneo del Tirreno l’Inter affronta l’Hertha di Berlino e vince per 1-0 con gol di Beccalossi. Che c’azzecca? Presto detto: in nerazzurro viene schierato un prestito del Parma… tale Ancelotti Carlo. Il ragazzo se la cava più che bene, e alla fine dell’incontro gli viene detto, senza tanti giri di parole: «Sei dei nostri». Badate bene perché siamo al 19 agosto 1978. A questo punto, però, al momento di mettere nero su bianco, qualcosa non funziona. L’Inter forse cerca di risparmiare, o magari è il Parma che cerca un leggero rilancio: fatto sta che l’affare, dato da tutti per concluso, non si concretizza e Ancelotti rimane con una foto in maglia nerazzurra e un bel “Come non detto”. Meno di dodici mesi più tardi arriverà l’offerta di Viola e il suo passaggio alla Roma. Altra fucina iperproduttiva per i rifornimenti della prima squadra della capitale fu l’Inter del ciclo finale di Herrera.

Quando “Il Mago” si trasferì alla Roma portò, infatti, con sé due ragazzi che si erano appena affacciati in prima squadra: Sergio Santarini e Aldo Bet. Inutile dire che soprattutto Santarini ha segnato, per oltre un decennio, un punto fermo irrinunciabile per la Lupa. La cessione di Santarini va contro qualsiasi barlume di logica, sia per l’uomo che lo aveva scelto e portato a Milano (un certo Italo Allodi che si era innamorato di lui vedendolo disputare un’amichevole contro il Santos, marcando Pelé), sia perché il reparto interista che più reclamava innesti era proprio quello difensivo.

Più comprensibile rimane la cessione di Cordova, che dopo uno scalo al Brescia approdò alla Roma, anche egli per divenirne capitano. “Ciccio”, cavallo di razza quanto bizzoso, non riusciva ad assorbire il “clima” meneghino. Faceva infuriare Herrera addormentandosi negli spogliatoi mentre i compagni lo cercavano, insomma il talento da vendere cozzava con l’irrequietezza del ragazzo e l’addio era stato inevitabile. Nessuna bizza invece per Marco Delvecchio, che a Milano avrebbe volentieri speso tutta la sua carriera e che dal presidente Moratti aveva ricevuto assicurazione di essere considerato un incedibile.

Poi, per vestire di nerazzurro Marco Branca, il giovanotto, già stella della Nazionale Under 21, dopo un estenuante tira e molla venne lasciato alla Roma di Franco Sensi che ne fece un suo irrinunciabile alfiere. Potremmo andare avanti all’infinito ma dovendo proprio fermarci scegliamo il caso di Odoacre Chierico. Sbocciò al professionismo con l’Inter, facendo anche in tempo a vincere in nerazzurro la Coppa Italia e venendo preso in simpatia da Giacinto Facchetti (al suo ultimo anno), al quale per rispetto dava del lei. Non bastò per credere in lui, l’Inter lo lasciò al Pisa che in seguito lo avrebbe girato alla Roma, dove conquistò (al pari di un certo Prohaska…) il titolo di Campione d’Italia 1983. Insomma Mattia Destro deve aver fretta di rinverdire questa strepitosa tradizione, inziando magari prorio da domenica.

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