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Pallotta-Friedkin, questione di fiducia: i retroscena della cessione della Roma

James Pallotta

Alla fine è stata una volata, di quelle che avrebbe potuto raccontare il compianto Adriano De Zan in uno degli appassionanti epiloghi di una tappa del Giro d’Italia: stavolta però il traguardo era la maggioranza delle azioni della As Roma. A tagliarlo per primo il grande favorito della vigilia, Dan Friedkin, ma fino all’ultimo chilometro i suoi avversari hanno provato in ogni modo a rallentarne l’impeto per batterlo proprio nel rettilineo finale.

Per uscire dalla metafora, i suoi competitor avevano messo sul piatto della bilancia due offerte decisamente superiori a quella con cui alla fine l’imprenditore texano ha comprato la Roma. Ma non è bastato: a penalizzarli i tempi ridottissimi stabiliti a un certo punto delle varie trattative da James Pallotta, a sua volta messo alle strette dalla scadenza dell’offerta di quello che comunque era in quel momento il più sicuro e conosciuto investitore possibile.

Ma non quello in grado di fare l’offerta più ricca: perché se Friedkin ha comprato la Roma acquistando il pacchetto di maggioranza delle azioni per una cifra vicina ai 199 milioni di euro al netto dei debiti, i kuwaitiani si erano detti disposti a offrirne 230 e i sudamericani addirittura una cifra spudoratamente superiore, dicono intorno o superiore ai 320 milioni. E Pallotta ha vacillato, eccome.

Tecnicamente, i due competitor lamentano di non essere stati messi nelle stesse condizioni del vincitore: Pallotta a un certo punto ha chiesto ai tre candidati un’offerta vincolante, ben sapendo che solo Friedkin, dei tre, aveva avuto accesso ad un’accurata due diligence che gli aveva permesso di avere un’idea chiara fino al centesimo dello stato delle finanze della Roma.

Logico che gli altri due chiedessero tempi più lunghi, non ritenendo sufficiente la documentazione scaricata dal preventivo accesso alla data room, la piattaforma virtuale messa a disposizione dalla Roma ai candidati ritenuti più seri all’acquisizione della proprietà. È anche vero, però, che Pallotta aveva dovuto aspettare diverse settimane affinché i rappresentanti dei due gruppi concorrenti formassero il veicolo imprenditoriale in grado di acquistare la Roma. E questa operazione, soprattutto per la cordata sudamericana, era stata particolarmente elaborata. Ad acquistare la Roma non sarebbe stata infatti un gruppo industriale già operante, ma una holding appositamente formata con capitali privati di imprenditori (che avevano rappresentato la loro offerta a Franco Baldini) smaniosi di investire nel calcio italiano, spagnolo e francese, con particolare riguardo alle capitali delle tre nazioni.

Ma vista l’evidente “inattaccabilità” di Paris Saint Germain e Real Madrid, si stavano concentrando sulla Roma e altri due obiettivi alternativi. Neanche la ricerca di soluzioni finanziarie diverse, tipo un deposito a garanzia particolarmente cospicuo, ha convinto Pallotta che alla fine ha preferito cedere a Friedkin, imprenditore conosciuto con l’assegno già pronto.

Ci è rimasto male anche Fahad Al Baker, imprenditore kuwaitiano che invece aveva promosso il suo interesse attraverso un mediatore vicino a Massimo D’Alema che a sua volta aveva contattato il vicepresidente giallorosso Mauro Baldissoni. Ma lo stesso Al Baker era stato improvvido in alcune esternazioni pubbliche.

Fonte: Il Romanista

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