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REPUBBLICA La Fiorentina cancella gli ultimi resti di Garcia. Roma dai sogni alla gogna

Manolas
Manolas

(E. Sisti) – Il crollo dopo il crollo. Vengono giù anche gli ultimi mattoni. Si sgretola la piazza, frana l’intero villaggio che un tempo lontano si sognava di abbellire e completare con una chiesa che forse non c’è mai stata. Garcia prende appunti in panchina, la Roma sta già perdendo 3-0, è fuori dall’Europa, alla Fiorentina è bastato esistere, lucida, calma. Siamo già oltre la fine delle speranze, oltre ogni decenza. Forse il tecnico sta scrivendo le prime righe della sua lettera d’addio? No: «Sono deluso ma non abbattuto, io non mollo, ora vado alla guerra, voglio difendere il secondo posto in campionato», dirà stizzito un’ora dopo.

Evidentemente per le lettere d’addio, fra horror movie e storie di fantasmi in campo, c’è ancora tempo. Del resto la Roma non preoccupa, perché dovrebbe: dispone solo di calciatori senz’anima, incapaci d’intensità, privi di concentrazione, pronti alla resa e sempre più divisi. Che volete che sia? Garcia ha perso furore, furbizia, entusiasmo. Manda in campo De Rossi, quindi la caviglia non era così grave se guarisce in sei giorni, sceglie Keita però il maliano era stanco e si fa male, decide per Pjanic ma ormai Pjanic non è quel Pjanic lì. E tiene fuori Totti dopo averlo risparmiato nel secondo tempo (poi perso senza Totti) contro la Sampdoria. Che senso avrà?

Quasi senza volere la Fiorentina ha preso parte al dramma giallorosso, si è ritrovata ad affondare le dita nelle piaghe di un’avversaria infettata dal male di vivere e di giocare. Con pieno merito i viola di Montella si sono guadagnati i quarti, la Roma ha regalato, loro hanno ringraziato, poi hanno rischiato di vincere 5-0 (due pali). La partita è stata brevissima. E’ finita al 21’ quando Basanta ha crocefisso di testa quel che restava della Roma, portando il risultato sul 3-0 in un tempo di poco superiore a quello impiegato dal Manchester del 7- 1 (19’) e di poco inferiore a quello del Bayern dell’1-7 (25’). Forse la partita era finita già prima: quando Skorupski per evitare un corner regala la palla del 2-0 ad Alonso (18’). O forse quando Gonzalo segna il rigore calciato due volte (9’). Oppure quando Cholevas commette il fallo che quel rigore maldestramente provoca. Oppure quando Gervinho, con un controllo di palla inguardabile, innesca la manovra che avrebbe portato al rigore stesso. O magari ci inganniamo tutti. Perché magari una vera partita non c’è mai stata. Buio in sala, scorrono i titoli di coda di un film sul dissolvimento di una squadra che aveva fatto sognare.

I pochi spettatori rimasti, con lo sguardo vitreo, sembrano paralizzati dal dolore. Qualcuno è uscito all’inizio del secondo tempo, ha raggiunto macchina o motorino e se n’è tornato a casa di corsa. Dalla curva sud erano scappati lasciando veleno, rabbia e seggiolini vuoti dietro di sé, tutte emozioni concentrate in uno striscione diretto: “Roma s’è rotta er cazzo, a presto!”. Poi sono rientrati minacciando i giocatori. Alla fine, in massa, hanno preteso che i colpevoli sfilassero sotto di loro, hanno voluto che vivessero la gogna, dopo essere scesi agli inferi del pallone, che arrivassero fin lì a testa bassa. A cavalcioni sull’inferriata i più esagitati inveivano, gesticolavano, urlavano e sputavano, facendo ricordare le scene dei genoani costretti a togliersi la maglietta, Jenny la Carogna, il potere perverso del tifo che non conosce dialogo, il brutto del nostro calcio malato. Di sano soltanto le lacrime di Florenzi. C’era una volta la Roma di Garcia. Già, e poi la storia come continua?

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