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GAZZETTA DELLO SPORT I 10 anni del declino: incassavamo più del Bayern, poi tanti errori

Allianz Arena
Allianz Arena

(M. Iaria) C’è stato un tempo in cui eravamo re e pensavamo che durasse all’infinito. Stupidi, miopi, anche sfortunati (chi poteva immaginare che la crisi dell’economia avrebbe azzoppato il mecenatismo pallonaro?). C’è stato un tempo in cui la Juventus aveva lo stesso fatturato del Real Madrid, l’Inter del Bayern. Sembrano trascorse due ere geologiche, è passato un decennio, quello che ha visto la trasformazione del calcio in fenomeno globale, perfettamente inserito nell’industria dell’intrattenimento. Gli altri hanno colto l’attimo, noi no. Per una serie di motivi, non dipendenti solo dalla nostra incapacità o negligenza. Ma è successo. È successo che le big italiane non abbiano saputo capitalizzare l’etichetta del «campionato più bello del mondo» proprio mentre le concorrenti straniere hanno mutato pelle. Sorpasso, fuga, doppiaggio. La serie storica dei ricavi dà esattamente il senso del declino del calcio italiano. Le battistrada sono lontanissime ma fino a dieci anni fa eravamo lì, nell’élite. Ecco com’è cambiato il rapporto di forza fra la tradizionale triade JuventusMilanInter e le quattro squadre che incassano di più al mondo. 200304: Manchester United primo con 259 milioni di entrate, poi Real 236, Milan 222, Juve 215, Barcellona 169, Bayern e Inter 166. Un decennio dopo, la voragine. 201314: Real 548 milioni, Man Utd 541, Bayern 487, Barcellona 485, Juve 280, Milan 250, Inter 161. Spagnole, inglesi, tedesche sono cresciute a ritmi stupefacenti, con blancos e Red Devils a raddoppiare il giro d’affari e bavaresi e blaugrana addirittura a triplicarlo. E le italiane? Andamento lento: +30% per i bianconeri, +13% per i rossoneri, i nerazzurri hanno perso il 3%.

NON BASTA Piccolo alibi. Dal 2010 in Italia i diritti tv non sono più venduti individualmente e nella ripartizione collettiva le grandi ci hanno rimesso. Vero, ma vale il rovescio della medaglia: l’eccessiva teledipendenza ha impigrito i dirigenti italiani, li ha illusi di poter vivere di rendita senza sfruttare le altre fonti di ricavo. Nel commercio la chiamano product extension: dilati il prodotto, ti inventi nuovi modi di far soldi. Non è che non si sia fatto nulla. La Juve, peraltro stoppata da Calciopoli nella crescita, si è dotata di un impiantogioiello e i benefici si sono visti: nel 200304 incassava dal botteghino 18 milioni, scesi a 12 nell’ultima stagione all’Olimpico per quadruplicarsi fino a 49 milioni con le attività collaterali. Il Milan ha lavorato proficuamente in campo commerciale passando in 10 anni da 53 a 80 milioni, con operazioni ritagliate su misura per i partner. Tutto questo non è bastato perché il resto del mondo ha viaggiato a velocità supersonica. La diffusione della lingua inglese per il Manchester, i favori delle banche per le spagnole, l’aiuto dell’economia tedesca per il Bayern. Fattori non trascurabili. Ma vogliamo liquidare così il fenomeno? Le differenze sono troppo ampie per non assegnare responsabilità a chi, in questi anni, a livello di club, di Lega, di Federazione ha gestito il calcio italiano.

IL VOLANO DEGLI STADI Nel 200304 il Bayern percepiva dallo stadio 22 milioni, meno delle milanesi. Nel 2005 ha inaugurato l’Allianz Arena, che rappresenta uno dei massimi esempi di utilizzo polifunzionale di uno stadio. Tanto che la società che lo gestisce, controllata al 100% dal club, fattura 49 milioni. Non dalla biglietteria ma dal resto: affitto per eventi, area vip, ristoranti, parcheggi, ecc. Così il Bayern può permettersi di mantenere la sua vocazione popolare – bastano 15 euro per assistere in piedi alle partite – e di aderire mirabilmente alle logiche degli affari. Mentre Milan e Inter incassano dal Meazza più o meno gli stessi quattrini di un decennio fa (ci sarebbero da conteggiare 6 milioni a testa dalla collegata MIStadio, che non figura nei bilanci consolidati), il Bayern è volato a 145 e si appresta a portare la capienza dell’Allianz a 75mila posti. Non adagiarsi sugli allori, far frullare sempre il cervello: le società modello agiscono così. In Spagna sono pronti progetti faraonici per il Bernabeu e il Camp Nou, che già hanno raggiunto entrate da record. Da 62 a 140 milioni per il Real, da 58 a 147 per il Barça negli ultimi 10 anni alla voce stadi (compresi una ventina di milioni ciascuno dalle quote dei soci). I madrileni intascano 42 milioni dall’area premium, grazie a 245 palchi e 4.696 posti dotati di ogni comfort. D’altronde, sotto la presidenza di Perez non sono stati spesi soldi solo per Zidane e Bale ma anche per ammodernare (200 milioni) l’impianto. Il tifoso che si reca a Barcellona fa un’esperienza unica: i cimeli del museo, il luccichio dello store da 2.100 metri quadrati. In un anno il museo del Camp Nou registra 1,5 milioni di visitatori, quello della Juve 200mila. Risultato? Il Barça incassa dai tour 30 milioni, i bianconeri (esempio in Italia) 4.

L’ARTE DEL COMMERCIO È nello sfruttamento del marchio, dentro e fuori i confini nazionali, che si enfatizza la differenza tra noi e loro. Il Manchester United, leader dei ricavi commerciali con 236 milioni, è stato il primo a internazionalizzarsi. Un processo molto lungo, certo facilitato dall’espansione della Premier League che a partire dalla scissione del 1992 ha esportato il calcio inglese come format, ma ovviamente alimentato da strategie commerciali individuali: a Londra c’è un ufficio con 80 persone, impegnate a mettere in pratica la distribuzione capillare del brand. Nel frattempo è stato aperto un distaccamento a Hong Kong e presto uno a New York: un passaggio obbligato cui non si sono sottratte neppure le spagnole e il Bayern, che nei prossimi mesi sbarcherà anche a Shanghai. Lo United ha però una peculiarità: penetra il mercato in modo «verticale », stringendo accordi con aziende regionali (il costruttore cinese, la banca turca, il colorificio giapponese, la birra thailandese). Una strada che adesso stanno tentando di seguire le italiane. Allo stesso tempo il management assunto dai Glazer ha sottoscritto contratti da favola con i colossi mondiali: lo sponsor di maglia Chevrolet, dopo aver pagato un premio d’ingresso da 46 milioni, in questa prima stagione sborsa 56 milioni con un +2,1% che scatta ogni dodici mesi; il precedente, Aon, è rimasto in famiglia griffando i campi di Carrington e il materiale d’allenamento per 20 milioni annui; dal 201516 Adidas sostituirà Nike con un minimo garantito di 95 milioni più le royalties.

GLOBETROTTER Proprio il merchandising è una leva incredibile, visto che lo United può contare su oltre 200 licenziatari in 120 Paesi: si produce di tutto, dalle tazze alla biancheria, per 5 milioni di pezzi venduti ogni anno (di cui 1,5 milioni di maglie da gara). È tutto un circolo virtuoso: più ti riconoscono, più ti vogliono, più ti pagano. Nel 201314 i tour e le partite amichevoli hanno regalato ai Red Devils 14 milioni contro i 3 dell’Inter. Un’anima da globetrotter come per il Real che fattura all’estero 114 milioni su 548 sopperendo alle difficoltà del mercato spagnolo: proprio qualche giorno fa Ronaldo e compagni hanno fatto festa al caffè merengue di Dubai. Se il Barcellona, dopo aver profanato la maglia coi qatarioti, ora si fa sponsorizzare pure l’interno (4 milioni da Intel), in questo calcio senza confini nessuna squadra riesce a succhiare dalla terra d’origine quanto il Bayern che arriva a ben 223 milioni di ricavi commerciali. Grazie a socisponsor del calibro di Adidas, Audi e Allianz. Ma grazie anche a un legame indissolubile con la propria comunità: la regola antiscalate del 50%+1 resiste al tempo. Ognuno ha saputo trovare la sua strada. Tranne noi.

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