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LA REPUBBLICA Pogba: “Una lunga sfida alla solitudine ecco il segreto del mio calcio. Garcia? Una sorpresa”

Paul Pogba

(E. Audisio) È l’anti-Balotelli. Ha la cresta, ma non la alza. Anche lui giovane, nero, africano. Piccole piovre crescono. Potenza, fisicità, tecnica. Paul Pogba è il futuro che tutti vogliono, la meglio gioventù del mondo in sala regia. A 20 anni ha già attraversato il calcio: Francia, Inghilterra, Italia. È alla sua seconda stagione alla Juventus, ma davanti ha molti mari. E un derby francese con Garcia in questa Juve-Roma. Paul è il piccolino di casa. L’ultimo arrivato, ma il più alto. È nato in Francia, per lui tante squadre hanno litigato e la prima con la sua cessione ha ristrutturato uffici, ampliato la struttura e vestito le varie formazioni. I suoi due fratelli gemelli (tre anni più grandi) invece sono nati in Guinea. Anche loro calciatori. I Pogba sono tatticamente ben schierati anche in famiglia. «Florentin, più estroso, gioca difensore nel Saint Etienne, Mathias, più maturo, invece è attaccante nel Crewe Alexandra, terza serie inglese. Tutti e due sono nazionali della Guinea. Antoine, mio padre, voleva fare il calciatore, poi l’allenatore, a lui dobbiamo la spinta verso il pallone. Sono cresciuto guardando videocassette: non solo Pelè e Maradona, ma anche Papin. Volevo avere la sua forza, la sua aggressività. Gioco bene anche a ping-pong, difficile che in ritiro con la Francia qualcuno mi batta, anche se Lloris, Clichy e Gignac sono a mio livello. Ci tengo a dire che la mia famiglia ha sempre insistito sugli studi e che a scuola non ero un campione, ma nemmeno un asino».

Ha fatto in tempo a godersi il ’98?

«Avevo cinque anni, ma la Francia campione del mondo che batteva il Brasile ha cambiato tutto il mio immaginario. Stavolta i migliori eravamo noi. Volevo essere Henry, Zidane, anche se il mio mito era Ronaldo, che quando segnava alzava il ditino. Mi piaceva perché dava l’impressione di poter fare tutto. Ho ammirato anche Adriano. Ma grazie a papà andavo avanti a nutrirmi di videocassette: Pelè la buttava dentro con tutto , sinistro, destro, testa, non c’era niente che non gli riuscisse , Garrincha con le sue finte, con quella gamba strascicata, faceva ammattire gli altri, dove li vedi più i suoi slalom pazzeschi?, e Zico con quella potenza di fuoco era un artista della mira». Lei ha iniziato a giocare a sei anni. «Sì. I miei si sono separati. Sono rimasto con mamma. Dal Roissy-en-Brie sono passato al Torcy e poi a Le Havre. Sono andato via di casa presto. Ma ero contento e non mi sono trovato male. Sono stato solo, ma non ho sofferto di solitudine. Alla sera chiamavo casa e i miei fratelli, io ci parlo con la mia famiglia, non sono di quelli che fanno i duri. E nemmeno di quelli che si fanno i tatuaggi ».

Dovesse fare paragoni tra i suoi primi 20 anni e quelli di Balotelli?

«Credo che lui abbia sofferto molto, ci sono ferite infantili che non si rimarginano, se non ti sei sentito abbastanza amato, tutto quello che viene dopo non ha mai la forza di cancellare quello che è venuto prima. Un po’ di comprensione non guasterebbe, ha avuto una vita difficile, sembra un bad boy ma il suo fondo è buono. A Manchester per via delle creste ci scambiavano. Io leggo libri sull’Islam e anche quello di Thuram, “Le mie stelle nere”. Mio padre era professore, uomo di studi non solo di calcio. Cerco di capire le mie radici, da dove vengo, chi sono. Mi piace la musica rap, vado matto per gli spaghetti con i gamberetti e per il film Apocalyto di Mel Gibson, la storia del giovane maya, Zampa di Giaguaro, mi ha conquistato. Sono andato in Guinea da poco, per la mia prima volta, bello, ma duro ».

Non si è ritrovato?

«Ho conosciuto zie, cugine, parenti. Ma anche nella capitale, Konacry, tutto è un problema. Acqua, luce, cibo. La gente che qui si lamenta non si rende conto di come una parte dell’Africa non abbia niente. E cose di cui qui non credevi di poter fare a meno lì perdono d’importanza, ne fai a meno eccome, ne sei costretto. Andare in Africa scombussola, ma dà nuovi equilibri».

Anche andare a 16 anni al Manchester United.

«Sì. Se ti allena Alex Ferguson, unico nel sentire i giocatori, nel capire quello che ancora non sanno di essere. Ferguson vedeva in profondità, intuiva negli altri progressioni e sviluppi che ancora non c’erano. In tanti gli devono il successo, lui ha creduto in anticipo, anche in me, anche se giocavo poco». E le sconsigliò il trasferimento in Italia. «Disse: troppo razzismo, ti troverai male».

Dissentì, vero?

«Sì. Anche perché lì avevo avuto molte difficoltà ad ambientarmi con l’inglese che non conoscevo. Sei mesi di pratica infernale, se non sai la lingua e la devi imparare non è che in Gran Bretagna siano molto simpatici. Quanto al razzismo gli risposi che quello c’è dappertutto, nessuno ne è immune. Tanto meno l’Inghilterra. Come hanno dimostrato John Terry e Luis Suarez che ha urlato per sette volte negro a Evra. Anche i nostri tifosi non capiscono che quando insultano un avversario per il colore della pelle fanno male anche a me. E’ un gioco, non la tombola del disprezzo».

E che altro non capiscono i tifosi?

«Che un calciatore ha diritto a vivere la vita con il suo stile. Guadagniamo soldi, non li rubiamo. Se voglio comprarmi una bella macchina sono affari miei, nessuno me lo può rinfacciare o giudicare il mio profitto sportivo da quello. Io sono uno che deve ancora arrivare in cima, ma sono consapevole che la fama può darti alla testa, ti senti onnipotente, e cadere dall’alto fa molto male, perché non sei più abituato a stare a terra». Lei ha smentito Ferguson. «In un certo senso. Il calcio italiano è molto tattico, rispetto a quello inglese, molto fisico, e a quello francese, molto tecnico. Ma in questo momento è sottovalutato. Qui c’è molta pressione, apprensione, nervosismo, ossessione. E in campo ci sono marcature strettissime, che sì, soffro. In più si parla di un gesto o di un fatto per tutta la settimana, mai una volta che puoi tirare un sospiro di sollievo. Ma è proprio questa eccessiva attenzione a rendere il calcio italiano anomalo, diverso, difficile. E alla fine anche straordinario».

Uno psicologo può aiutare?

«Non ne ho bisogno. Io di sera mi attacco al telefono e parlo con i miei, faccio molto clan, in più mia mamma viene spesso a trovarmi. Alle Juve sto bene, non nascondo che da bambino sognavo di giocare nell’Arsenal e nel Barcellona. E ora sogno di giocare in nazionale contro i miei fratelli, sarebbe una partita bellissima, nessun problema di smarcarmi».

Sorpreso dal primo anno di Rudi Garcia?

«Sì. Non lo conosco personalmente anche se siamo tutti e due francesi. Ma difficoltà di ambientamento non ne ha avute, né a Roma né alla Roma, segno che è duttile, veloce nel capire. Quanto alla sfida, ci teniamo a vincere, la delusione, anzi amarezza, in Champions c’è stata, inutile negarlo, a Istanbul non c’erano le condizioni per giocare, ma resta in piedi tutto il resto, dallo scudetto al mondiale. Perché io non ho mai dubitato che la Francia non ce la facesse a qualificarsi per il Brasile».

Per lei la Juve è.

«Zidane, Trezeguet, Nedved. Talento, classe, disciplina, senso di squadra. Quanto a me so che promettere non basta, bisogna mantenere. Ho fatto la trafila, so che c’è un percorso, ho voglia di arrivare. Non ho imbarazzi con il mio talento, né frette assurde. Però ci tengo a metterlo in azione».

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