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IL MESSAGGERO. “Io, un tecnico figlio di Roma”

Eusebio Di Francesco

(A.Angeloni) Eusebio Di Francesco, 42 anni, fa l’allenatore del Lecce, giallorosso come la Roma, dove è stato dal 1997 al 2001. Centouno presenze e quattordici gol. Arrivò con Zeman, ha salutato con Capello, dopo aver vinto uno scudetto. Poi è tornato con Spalletti, ma come team manager. Difra è rimasto nel cuore dei tifosi. «Non sono mai stato un ruffiano, forse la gente mi rispetta per questo. A Roma hanno apprezzato prima l’uomo poi il calciatore. E io sono stato benissimo, ho vissuto anni indimenticabili, ho conosciuto gente importante e ancora oggi lì a Trigoria ho tanti amici».

 

Nella Roma ha fatto tutto: giocatore, dirigente. Le manca il ruolo di allenatore.
«È prematuro pensarci ora. Sarebbe un bel sogno».

Vista la frequentazione con Tommasi, pensavamo potesse intraprendere una carriera più «politica».
«Damiano è portato per quel ruolo, io non ci ho mai pensato, pure essendo tutt’oggi suo amico».

E come nasce l’idea di fare l’allenatore?
«Quando ho smesso, non volevo più saperne del calcio e soprattutto non avrei mai pensato di fare l’allenatore, tant’è che ho aperto uno stabilimento balneare. Poi sono tornato a Roma per fare il team manager, è stata una bella esperienza. Ma mi mancava troppo l’odore dello spogliatoio, la vita sul campo. Insomma, ci sono ricascato con tutte le scarpe. Ed eccomi qua».

Critiche, esoneri: è dura la vita degli allenatori.
«Ci sta, fa parte del gioco. È bello prendersi responsabilità, emozionante».

Certo, come farsi rimontare tre reti dal Milan…
«Meglio non parlarne, quella sera ho spento il cellulare e mi sono isolato. Pensavo di essere su scherzi a parte. Mi è tornato un po’ il sorriso la sera quando, da Fabio Fazio, ho visto Zeman. Ecco, quella partita non sarebbe stato capace di perderla nemmeno lui».

Ha rischiato l’esonero.
«Capita. Certe volte penso a cosa servono gli esoneri. Il Lecce è normale che sia in bassa classifica, non lo è per l’Inter».

Torniamo a Zeman: è il suo punto di riferimento.
«Mi piace la sua filosofia, il suo modo di concepire lo sport. Ma io non copio nessuno, prendo solo spunto».

E che spunti ha preso dal boemo?
«La semplicità, la serietà, il rispetto. È un uomo che va avanti per la sua strada senza ascoltare nessuno, senza tornare indietro nelle sue decisioni. Questo può essere un limite, ma è la sua forza. Certe volte mi chiedo: ma come fa? Io, ad esempio, se capisco che sbaglio, mi ravvedo. Zeman non lo fa».

In sintesi: Zeman non è da grande squadra?
«È un maestro per giovani, in una big fatica».

Di sicuro lei non ha preso spunto da Capello, con il quale non ha avuto un buonissimo rapporto a Roma.
«Non è vero. Con lui ci siamo confrontati spesso, io facevo il calciatore e volevo giocare. Peccato quell’anno venivo da un lungo infortunio, lo scudetto l’ho vissuto poco da protagonista, ho fatto solo cinque presenze, e molto nello spogliatoio. A distanza di anni, ho capito le sua scelte. Capello è stato bravo e fortunato ad avere un gruppo di giocatori fantastici».

E Capello che cosa ha lasciato all’allenatore Di Francesco?
«Da un punto di vista tattico quasi nulla, ma sul resto è stato importantissimo. Un uomo durissimo nello spogliatoio, sapeva come tirar fuori il meglio dai giocatori. Ti faceva arrabbiare, e più ti arrabbiavi, più ottenevi risultati. Una dote fondamentale».

Va bene, ma alla fine il suo Lecce come lo fa giocare? 
«Per adesso facciamo un 4-2-3-1 spallettiano. Ho in Bertolacci, il Perrotta di quel periodo. Mi piace il calcio offensivo».

Spalletti l’ha vissuto da dirigente.
«Un personaggio particolare, un grandissimo allenatore. Merita di tornare in Italia alla guida di una grande. Anche lui aveva un bel gruppo a disposizione».

Cosa le è viene in mente quando pensa alla Roma?
«Ai simboli: Totti, ad esempio. Allo scudetto, agli uomini eccezionali che hanno formato quel gruppo. Alle feste, alle sensazioni che una vittoria simile ti dà e che ti accompagna sempre. Al presidente Sensi, che mi ha portato a Roma e che ricordo ancora con grande affetto».

S’era detto che il gruppo dello scudetto non era così unito.
«La sconfitta con l’Atalanta in coppa Italia e la contestazione conseguente ci ha unito. Ognuno ha smesso di pensare a se stesso e ha mirato all’obiettivo. È stata un’annata indimenticabile. E quando c’era da far gruppo, Tommasi, io e gli altri riuscivamo a vivere serate divertenti. Tutti insieme».

Di Luis Enrique che idea si è fatto?
«È la novità per eccellenza. Un allenatore come lui in Italia non esiste. Sta cambiando la mentalità della gente e la squadra propone un calcio piacevole, innovativo. Mi piacerebbe vederlo in allenamento. Il problema è che bisogna farlo lavorare in santa pace e la Roma ha dimostrato di credere in lui. Sta lavorando sui giovani, cosa che prima non accadeva».

Trova cambiata la Roma in queste ultime settimane?
«Leggermente. Ora è più solida, un po’ più italianizzata. Da avversario preferivo incontrare la squadra precedente».

Meglio senza Totti.
«Francesco ha quattro occhi e in campo ha un carisma fuori dal comune. È il migliore con cui abbia mai giocato. Era è e resta un amico. Adesso sono un giallorosso salentino e sarà bellissimo tornare all’Olimpico».

La Roma l’ha già affrontata da avversario.
«Da giocatore, e ho anche segnato un gol. Senza esultare».

Che accoglienza si aspetta domenica sera?
«Mi aspetto un saluto da parte dei tifosi, io andrò a salutare gli amici, poi faremo il nostro dovere».

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