Dev’essere l’aria, a Catania, anche quando le salvezze in palio sono già cartoline ingiallite della Serie A che fu e gli scudetti sono concetti che quasi la matematica ignora.
Una piccola, forse neppure così piccola, questione era però in ballo sul terreno del “Massimino”: la Roma oggi poteva vedere consumata la nemesi etnea, dopo sette anni da un pomeriggio infame, frustrante ed incivile – tre aggettivi che la sorte beffarda rende attualissimi per il calcio italiano dopo la serata di ieri -; invece sin dall’inizio la squadra di Garcia si mostra pallida come il sole velato che offusca la prestazione di De Sanctis e compagni, che vanifica la luce che Totti si affanna ad accendere, che restituisce Ljajic agli antichi dubbi, latitanze e torpori.
Stavolta non c’è neppure, a parte un piccolo accenno, il clima da corrida e non ci sono i mille facinorosi indegnamente camuffati da inservienti a bordo campo. Quindi la squadra giallorossa prova timidezza nei confronti di se stessa, di quell’immagine veicolata lungo tutta una stagione e della quale oggi non è mai riuscita a essere all’altezza, forse a cominciare dalle facce, dalle quali già si poteva e doveva capire tutto.
Non è tanto per uno scudetto da poltrona regalato alla Juventus prima di un’Atalanta di gala, che quella era già soltanto questione da almanacco; è il fatto che quella di oggi poteva essere una ciliegina di perfidia e vendetta sulla torta di un campionato – Florenzi docet – che resta motivo di orgoglio e stupore.
Totti, un concetto a parte: il suo goal è prodigio di coordinazione ed equilibrio balistico, facile solo agli occhi di chi il pallone l’ha sempre e solo guardato da fuori. Più una manciata di aperture sussurrate con eleganza a una squadra oggi completamente sorda, incorniciate dalla solita corsa, costante e intelligente.
Il fatto è che a volte ci si marca da soli, come può accadere a Gervinho.
Paolo Marcacci