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IL FATTO QUOTIDIANO 2016, fuga dallo stadio. La serie A peggio dell’India

Curva Sud
Curva Sud

(T. Rodano) Per vedere lo stadio Olimpico pieno c’è bisogno della palla ovale. Malgrado un’irriducibile tradizione di sconfitte (sabato contro gli All Blacks non ha fatto eccezione), l’Italia del rugby continua a riempire le gradinate. Le stesse che restano praticamente deserte da più di un anno, domenica dopo domenica, quando giocano Roma e Lazio. L’ultimo provvedimento che ha contribuito a svuotare l’Olimpico sono le barriere di vetro che tagliano a metà la curva Sud e la curva Nord, i settori che una volta si definivano “popolari”, la casa del tifo organizzato.

Decisione della questura, con ordinanza del 28 luglio 2015: dividere le curve, per le forze dell’ordine, aiuta a garantire controllo e legalità. Per i gruppi ultras, invece, è l’ennesima provocazione di una lunga serie (iniziata con la “tessera del tifoso” voluta dall’ex ministro dell’Interno Maroni nel 2009), con l’obiettivo (riuscito) di tenerli fuori dagli stadi. Il risultato è che l’Olimpico è diventato un deserto di ghiaccio, un teatro mastodontico, inospitale e silenzioso. Una cartolina perfetta dell’intero movimento calcistico nazionale. Anche dove non ci sono barriere, infatti, la fuga dalle gradinate è generalizzata.

Le cifre del disastro I numeri delle prime 12 giornate di serie A sono sconfortanti. La media spettatori diminuisce ancora: dai 22.221 della passata stagione ai 21.516 dell’attuale (fonte: il Report 2016 della Figc). Non basta la timida crescita delle milanesi. L’Inter, che guida la classifica del pubblico, porta a San Siro una media di 47.989 persone (quasi 2.500 più che nello scorso campionato), il Milan passa da 37.861 a 38.521. Cifre influenzate dal fatto che entrambe le squadre hanno già affrontato in casa la Juventus, con grandi numeri al botteghino. Roma e Lazio sono disastrose. I giallorossi perdono quasi 6mila spettatori di media e scendono a 29.011. Una cifra raccapricciante, per la storia del tifo romanista: 15 anni fa, nella stagione dell’ultimo scudetto, l’Olimpico era gremito da 64.271 spettatori a partita. Per quanto riguarda i biancocelesti, invece, il rito domenicale è diventato appuntamento per pochi intimi: 15.850 spettatori (l’anno scorso erano 21.025, quindici anni fa oltre 47mila). Può sorprendere il crollo del Napoli: malgrado uno dei pubblici più caldi d’Italia e una squadra ormai stabilmente nell’élite del calcio italiano, la gente diserta lo stadio (in polemica con il caro biglietti del presidente De Laurentiis): dai 38.760 spettatori della passata stagione ai 26.049 dell’attuale. Pochi tifosi e stadi enormi: è il sistema Italia. Il load factor è la percentuale di riempimento degli impianti: l’Olimpico rimane vuoto per il 59% quando gioca la Roma e per il 77% quando giocala Lazio; San Siro per il 41% con l’Inter e per il 52% con il Milan; il Napoli ha lasciato deserti il 57% dei seggiolini del San Paolo.

L’unica isola felice, tra le “grandi”, è la Juventus con il suo stadio di proprietà, che riempie ogni domenica per il 95,6% (la media spettatori è passata dai 38.662 del 2015 ai 39.678 di questa prima parte di campionato). Il load factor complessivo della serie A è del 59,72%: quasi la metà degli impianti resta vuota. Il confronto con il resto d’Europa è imbarazzante. In Germania gli stadi sono gremitissimi ovunque e la media è di 43.526 spettatori a partita (stagione 2014-2015). In Inghilterra, dove gli impianti sono più piccoli – ma sono gioielli – è di 36.179, in Spagna 26.835 e in Francia 22.251. Persino in Messico (25.557) e in India (25.371), la gente va allo stadio più che in Italia.

Questione di soldi La fuga è un fenomeno ormai consolidato da anni. È stata analizzata, spiegata e raccontata molteplici volte e in molteplici maniere. Chi indica gli impianti brutti, vecchi e inadatti, in cui la partita si vede male (ma perché allora si è svuotato anche San Siro, la “Scala del calcio”?). Chi i provvedimenti repressivi nei confronti del tifo organizzato (come a Roma) e l’infinita burocrazia dei controlli (tornelli, prefiltraggi, perquisizioni) che rende l’accesso alle tribune una specie di corsa a ostacoli. Chi, al contrario, considera gli stadi troppo pericolosi (ma gli incidenti sono avvenuti regolarmente a qualche chilometro di distanza). Ogni punto di vista racconta un pezzetto di verità. C’è un unico fatto difficilmente contestabile: nessuno lavora per invertire questa tendenza. Non ne hanno interesse le forze dell’ordine: gli stadi vuoti – e privati della componente socialmente più “impegnativa” – si controllano facilmente. Non ne hanno interesse le televisioni, per ovvi motivi: quei trentamila spettatori in meno all’Olimpico rispetto alla Roma dello scudetto, non hanno smesso di vedere la partita: sono passati dalla tribuna al salotto. Il valore economico del giocattolo può essere penalizzato dallo spettacolo deprimente delle curve vuote? Forse, infatti Sky e Mediaset non le inquadrano mai. In fondo, non ne hanno interesse nemmeno i club, come spiegano altre cifre illuminanti nel report della Figc. I ricavi da biglietteria delle squadre di serie A sono diminuiti in maniera meno che proporzionale rispetto alla diminuzione dei tifosi: erano 252 milioni di euro nel 1990, 239 milioni nel 2000 e 221 milioni nel 2015. Nel frattempo, però, sono diventati una parte poco rilevante nei bilanci delle società. Nel 1990 gli stadi producevano da soli oltre un terzo dei ricavi complessivi (253 milioni su 641). Oggi i tifosi sono molto più convenienti quando restano a casa: nel 2015 i diritti radiotelevisivi hanno riempito le casse della serie A con un miliardo e 32 milioni di euro, mentre biglietti e abbonamenti producono un quinto di quel valore. Una partita dal vivo senza tifosi non ha alcun senso. Ma a quanto pare il disturbo è ben retribuito.

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