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LA REPUBBLICA Addio ai Mondiali: la notte infinita del calcio italiano, si torna indietro di mezzo secolo

Il gol di Godin manda a casa l'Italia
Il gol di Godin manda a casa l’Italia

(E.Audisio) – Buffon, disperato, con gli occhi incavati, all’attacco, che chiede palla. Balotelli in panchina con le mani sugli occhi che piange. Bimbo, ti hanno fatto la bua? Ma non eri tu che mostravi i muscoli da Hulk e che ti sei fatto ammonire anche stavolta? Verratti pure lui in lacrime, quasi non ci volesse credere: come io primo in Francia e qua sbattuto fuori? Pirlo, con la gloria stropicciata in tasca, che suda impotenza, sbaglia passaggi, ed esce tramortito per la sua ultima volta, con la faccia dell’architetto che vede franare la sua casetta. Bonucci che se ne va a testa bassa, in una replica del disgraziato Casillas. Prandelli sul cui viso si intrecciano improvvise rughe, con il passo di chi deve liberarsi di una vergogna. Barzagli e De Sciglio con la maglia sulla faccia, a nascondere le illusioni franate dei vecchi e dei giovani. Parolo con la mano sul volto, come se anche lui si disconoscesse. L’ex ct Sacchi in tribuna: «Ha vinto chi ha meritato di più»L’ex ct e campione brasiliano Dunga: «Italia assurda, ai mondiali si gioca e si tira, non si cerca il controllo».

Necrologio e requiem per il tiki-taka al sugo. Do you remember Italy? In campo a far baldoria solo gli altri, quelli dell’Uruguay. Gli azzurri subito negli spogliatoi: tristi e solitari e niente ottavi. Nessuna zattera di salvataggio: per la seconda volta consecutiva Italia subito a casa. Come nel 1962 e 1966. Torniamo indietro di mezzo secolo. Se era riconoscenza e rispetto per un passato vincente nel 2010, è un’assenza di progetto per il futuro nel 2014. È un calcio che non regge più i ritmi del mondo. Dalla grande bruttezza ormai certificata, soprattutto nella sua pavidità di non provarci mai. Quindici anni fa in termini finanziari l’Italia era in cima alla classifica delle nazioni che più contavano nel pallone, ora è solo quarta, con la Francia in agguato. Little Italy in tutti i sensi. Non è più competitiva a livello di club né in Europa, né con la sue nazionali. L’ultimo pallone d’Oro è di Cannavaro (2006) e forse resterà l’ultimo per ancora molto tempo. A livello organizzativo una frana, meno di zero: l’ultimo campionato, ex più bello del mondo, ha avuto una media di appena 22.591 spettatori (la Bundesliga tedesca ne ha il doppio). Un’emorragia mortale: un milione di presenze in mano rispetto all’anno precedente.

Ah sì gli stadi, leggermente più giovani dei nostri nonni Un’età media di 65 anni. Vecchi, obsoleti, scomodi. Un’atmosfera da stadio violenta, senza cultura sportiva, con ultras pronti ad ammazzare gli altri, a parole e nei fatti. Genny ‘a carogna che decide se si gioca la finale di Coppa Italia davanti a Parlamento e Senato della Repubblica, mentre gli onorevoli ancora a chiedersi: ma noi contiamo qualcosa? Chissà se è un caso che il povero Ciro, sparato quella notte, sia moribondo nel giorno in cui il calcio italiano chiude, per rassegnazione, per incapacità, perché non sa come tirarsi fuori da una pozzanghera che anno dopo anno è diventata burrone e precipizio. In America chi dice negro a un compagno di squadra o a un rivale viene multato, squalificato, se è un presidente viene cacciato. Cultura sportiva è anche non usare parole offensive. La traduzione italiana è dire tutto, negarlo di averlo detto, minimizzare le violenze verbali: l’arbitro era lontano e non ha sentito, forse c’è stata una cattiva interpretazione.

Ufficialmente l’Italia viene rispedita a casa da un gol del Costarica e da uno dell’Uruguay. Da due colpi di testa di paesi che hanno meno popolazione di Roma nord. Non più forti, non più ricchi, solo più vogliosi di darsi da fare. L’ultimo a inzuccare è stato Godin, un difensore che ci ha provato, non Suarez, il loro Messi. Ma praticamente a farci fuori è stata una gestione calcistica cieca, dove non si è programmato, né investito, né innovato. Va bene, la casetta Manaus, molto hi-tech, a Coverciano doveva preparare gli azzurri al clima torrido amazzonico, ma forse dovevano entrarci dentro anche la Federcalcio e la Lega, farsi una bella sudata, e una volta fuori, ricambiarsi abiti e mentalità. Ora Abete e Prandelli se ne vanno, si dimettono. Il calcio azzurro chiude per fallimento. Ma non è che prima avesse dato segni di vita. Si guardava allo specchio, si trovava non male, un’altra nottata da passare, in attesa del giorno che invece stavolta si è fatto buio.

Le grandi star, quelle che fanno la differenza, Ronaldo, Messi, Neymar, non vengono più a giocare in Italia dove non ci sono soldi, bellezza, competitività, piacere. Certo si mangia meglio, ma non vai in finale di Champions, e se vuoi visitare Pompei sarà per un’altra volta perché c’è lo sciopero della biglietteria, quanto al Colosseo di notte te lo scordi. La meglio gioventù di questi mondiali non ha mai rischiato di essere azzurra. I vivai italiani non producono materia prima e se lo fanno nessuno la usa. Meglio l’usato sicuro, soprattutto straniero. Tenendo conto del numero di giocatori dati alle nazionali, il vivaio più prolifico è quello olandese del Feyenoord (9), con il 12,29%, seguono il Barcellona (11,61%) e la Dinamo Zagabria. Per trovare il primo club italiano bisogna scendere in 25esima posizione dove c’è l’Udinese, ancora più giù la Roma. Chiedere alla squadra di essere patria e alla patria di essere squadra è uno slogan da Maradona, che da ct nello spogliatoio in Sudafrica faceva vedere e rivedere la guerra per le Malvinas.

Non serve tirare fuori Garibaldi e Mazzini se si sa giocare a calcio e si ha la convinzione di aver lavorato bene. L’ultima croce sul cuore collassato dell’Italia ce l’ha piantata un ragazzo di origini keniane di 19 anni. Si chiama Divock Origi, gioca nel Belgio. È il gol più giovane di questo mondiale. Gli hanno chiesto se gli piacerebbe trasferirsi nella Roma. Ha risposto: «No, no, per carità. Io voglio andare in Premier League».

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