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IL ROMANISTA Federico può essere grande

Federico Coppitelli

(V. Meta) – Fosse arrivata in qualsiasi altro giorno, la notizia del suo approdo alla Roma non sarebbe passata sotto silenzio o quasi come invece è successo esattamente due anni fa. Era il29 giugno 2011 e a Trigoria, dopo sei anni e quattro titoli in bacheca, si consumava l’addio di Andrea Stramaccioni. Eppure l’allora ventiseienne Federico Coppitelli in quei giorni era stato al centro delle voci più disparate: prima sembrava dovvesse seguirlo all’Inter (meno di un’ipotesi, in realtà, visto che i rapporti fra i due si fermavano all’amicizia che legava le rispettive fidanzate), poi che fosse destinato a succedergli sulla panchina degli Allievi, infine che stesse sì per entrare a far parte dello staff giallorosso, ma per guidare i ’98 nei Giovanissimi Regionali.

Invece la sua esperienza a Roma cominciava dai Giovanissimi Nazionali, categoria che conosceva bene per aver portato i ’96 del Frosinone alla Nike Cup prima (dove erano stati sconfitti proprio dalla Roma) e poi a un passo dalle final-eight, eliminato negli ottavi dall’Udinese. Bruno Conti lo aveva scelto per il bel gioco espresso dalla sua squadra, oltre che per lagiovane età e la fame di successi, che magari gli ricordavano un po’ il primo Strama, pur senza il passato da grande promessa. Di certo ad accomunarli è la giusta dose di ambizione: due anni dopo quell’incrocio ai cancelli di Trigoria, uno commenta in Rai le partite dell’Italia alla Confederations Cup, l’altro si gioca una finale scudetto. Ha i modi da gentiluomo di Stramaccioni e l’ossessione dei dettagli di Montella, eppure per Coppitelli il punto di riferimento vero è sempre il campo. La passione ce l’ha nei cromosomi (il padre Paolo è stato presidente della Lupa Frascati), come Alberto De Rossi è arrivato alla Roma passando per la Nuova Tor Tre Teste, lasciata il 29 giugno di tre anni fa per il salto nel campionato Giovanissimi Nazionali alla guida del Frosinone.

Poi la grande occasione nella Roma, di cui è grande tifoso da sempre, una prima stagione con i ’97 perfetta fino alle final-eight, dove ha pagato un girone oggettivamente proibitivo con Inter, Reggina e Juve, e forse anche un pizzico di inesperienza. Ci ha riprovato con i ’98, non ha avuto paura di rimettere in discussione scelte tattiche che sembravano acquisite a un mese dalla partenza per Chianciano e il campo gli ha dato ragione. Gli piace il calcio offensivo (la tentazione pericolosa è sempre il 4- 2-4, provato a lungo lo scorso anno, ma accantonato per le partite importati), «ma per giocare con tanti attaccanti bisogna che la squadra se lo possa permettere, anche in considerazione degli avversari».

Con i suoi ragazzi scherza, parla molto, ma non come un amico perché confodere i ruoli non è da lui. Misurato, disponibile, alle critiche risponde con le spiegazioni, però prima le ascolta. Non gli piace perdere e soprattutto non sopporta le brutte figure (da quando è alla Roma ne ha fatta soltanto una, quando perse 4-0 con la Reggina alle finali dell’anno scorso), cura moltissimo i particolari, dagli schemi su palla inattiva alle rimesse laterali. Adesso fra lui e lo scudetto è rimasta solo l’Inter. «Loro e il Milan sono più forti di tutte, subito dietro veniamo noi», diceva dopo il ritorno degli ottavi con l’Atalanta. Chissà se nel frattempo la sua Roma gli ha fatto cambiare idea

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