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CORRIERE DELLA SERA Il mercato dei poveri

Roman Abramovich

(F. Monti) – Sono passati trent’anni da quando (1˚ giugno 1983), il presidente Lamberto Mazza aveva annunciato il passaggio di Zico dal Flamengo all’Udinese, per la regia di Franco Dal Cin. Un trasferimento che aveva irritato persino l’allora segretario della Cgil, Luciano Lama. Erano tempi gloriosi per l’Italia del pallone, fresca di titolo mondiale. Platini era già della Juve (preso a parametro Uefa nel 1982: 250 milioni di lire) e Falcao della Roma (dal 1982) e nell’estate 1984, sarebbero arrivati anche Maradona, strappato dal Napoli al Barcellona (13 miliardi) e Rummenigge (13), che l’Inter aveva acquistato dal Bayern.

Trent’anni dopo, è cambiata (e da un po’) la musica. L’Italia è arrivata seconda a Euro 2012, ma la crisi è profonda e si fa sentire. In questo avvio di estate, Neymar ha scelto il Barcellona (57 milioni); Falcao ha lasciato l’Atletico Madrid per il Monaco (60 milioni); Goetze ha salutato il Borussia Dortmund, ma per andare al Bayern (37 milioni, clausola rescissoria). E le previsioni non lasciano immaginare clamorosi colpi di scena, tipo quello di Ronaldo, preso da Moratti nel giugno 1997 per 49 miliardi di lire. Si aspettano acquisti stellari dal Chelsea, ora che ha annunciato il ritorno di Mourinho, dal Real Madrid, dal Paris St. Germain e dai due Manchester.Perché il mercato dei ricchi non è più una storia italiana?

Le ragioni sono tante (e nemmeno nuove), ma si possono riassumere nella perdita di competitività a livello economico dei nostri club. Delle quattro semifinaliste di Champions League 2013, solo il Borussia Dortmund non è fra i primi dieci club per fatturato (undicesimo posto, 189 milioni). La classifica (al 2011-2012) è aperta dal Real (512 milioni), poi Barcellona (483), Manchester Utd (395, eliminato negli ottavi dal Real) e Bayern (368). Il Milan è ottavo (256), la Juve decima (195). In Italia, i ricavi sono legati in grandissima parte ai diritti tv (ma dall’estero arrivano pochi soldi), anche se, dopo l’introduzione della legge Melandri, i club più importanti hanno perso non pochi soldi. C’è un solo stadio di proprietà (Juve, in attesa di Udine) e molti progetti, ma non la legge sugli impianti, della quale si discute da anni. Dopo un decennio di sprechi (legati alla vendita soggettiva dei diritti tv), i non altissimi ricavi vengono reinvestiti quasi tutti in ingaggi, che peraltro restano lontani dai livelli europei, anche per una diversa fiscalità. E per una tutela dei marchi che in Italia è inesistente. In epoca di fair play finanziario (ammesso che sia in vigore), maggiori ricavi consentono di fare maggiori investimenti. Chi punta sul calcio, riconoscendo al pallone una forza pubblicitaria senza paragoni, sceglie campionati spettacolari ed economicamente competitivi.

Dopo Abramovich al Chelsea, i nuovi ricchi hanno cambiato la geografia del calcio e non c’è alcun segnale di arretramento. Il caso del Monaco, fresco di promozione nella Ligue 1, è esemplare: il magnate russo Dmitrij Rybolovlev è deciso a ripercorrere la strada che ha portato il Paris St. Germain a vincere il campionato. Ed è disponibile a investimenti illimitati. Meno ricavi significano anche una consistente perdita di competitività tecnica, che ha portato l’Italia ad avere soltanto tre squadre in Champions League e a un bilancio non proprio esaltante: negli ultimi 10 anni, l’Italia ha vinto soltanto due Champions (Milan e Inter). D’altronde la nuova moda, alla quale non si sottrae nessuno, è quella di parlar male del calcio italiano, al quale si imputano tutti i misfatti del mondo e questa non è una bella pubblicità, mentre si continua a litigare per tutto e per tutti. L’ultimo caso è quello della Supercoppa italiana. In Inghilterra il Community Shield si gioca a Wembley, per definizione; da noi, ogni anno, si apre la caccia al miglior offerente. Non succede mai niente per caso.

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