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AS ROMA L’allievo di Benitez arriva nella Capitale

Rudi Garcia

Superstizioso non troppo, ma spagnolo sì. Alle radici del cuore. Andaluso, per la precisione. Anche se è nato e cresciuto alla periferia di Parigi. I suoi nonni emigrarono lasciandosi alle spalle la guerra civile, l’odiato franchismo e un mucchio di altre cose.  «Un appartamento a Garrucha. Il sole e i gamberi. Il flamenco ballato sui tavoli. La musica nei vicoli di Siviglia» . Garrucha è un villaggio di pescatori dove Rudi José Garcia torna di continuo da quando aveva sei anni.  «La prima volta andammo su una 2CV. Tre giorni di viaggio» . Sostiene di amare la danza come se avesse sangue saraceno nelle vene.

Supponiamo non ci sia rapporto di causa ed effetto tra le due cose. C’è invece di sicuro tra la passione per il ritmo e il suo calcio strutturato in continua corsa senza palla, vorticoso movimento. Garcia è convinto che ogni pollo sia un’aquila o possa fingere in misura convincente. Ad Aurélien Chedjou grida sempre:  «Devi essere Puyol» , trasformando un sogno in necessità. E’ un metodo che ha sperimentato su se stesso. Nel calcio ha svolto ogni compito e realizzato ogni fantasia: ragazzino che scalciava il pallone verso il padre José – professionista a sua volta – sugli spiazzi sterrati del paese, giovane calciatore a Lilla, eroe di un giorno nel 1984 quando segnò il gol della vittoria a Parigi contro il Psg, lui che non segnava neppure al Subbuteo. Persino giornalista, intervistatore a bordo campo, commentatore televisivo. E poi preparatore atletico, tattico, assistente, allenatore in capo prima in coabitazione, nel 2001 con Jean-Guy Wallemme al Saint-Etienne, e l’anno dopo solo al comando a Digione.

Ha una laurea sufficiente a insegnare educazione fisica alle superiori e il diploma che gli consente di allenare dovunque e chiunque, in Francia e fuori. Non gli ha mai fatto prendere tutta quest’aria, è vero, ma per prenderlo ha studiato altrove. Nel suo vecchio altrove, in Spagna. E’ andato a Valencia, da Rafa Benitez. Non ero nessuno, ricorda, eppure lui si fermava volentieri a parlare con me. Due anni fa Garcia ha portato il Lille, compagnia di giro in un circuito teatrale infarcito di maestri del palcoscenico, a vincere campionato e coppa di Francia. Come ha fatto? Semplice: ogni volta che il sipario s’alzava i suoi cominciavano a far girare il pallone e a girare essi stessi al pari di una catena d’ingranaggi. Il primo sms di congratulazioni ricevuto arrivava da Benitez. (…) Garcia conta sulla sua saracena determinazione di conquista, sulla sua fantasia tattica, sulla sua conoscenza del calcio europeo, spagnolo in particolare. (…)

E conta anche sulla sorte. Non è troppo superstizioso, ma spagnolo alle radici del cuore sì. Anzi, andaluso, e nessun andaluso rifiuterebbe il dono di un indalo. Un indalo è un omino stilizzato sormontato da un semicerchio. Forse è un santo, forse un prigioniero o un giocoliere. Probabilmente è un simbolo a due facce che rappresenta un uomo mentre si rifugia in una caverna per sfuggire alla pioggia e all’uscita quando vede l’arcobaleno. Messaggero degli dei, significa il nome.

Lo porta sempre con sé. Quello, e l’unica figurina della Panini con la sua faccia e i capelli zampillanti che lo facevano simile al protagonista di un videogioco giapponese. O a uno dei Beatles in lieve ritardo d’epoca. Strano ne esista solo una, dato che Garcia tra A e B francesi ha disputato oltre 300 partite.

Curiosi criteri di selezione, ma non più curiosi dei suoi. Uno che ha studiato il ticchete e tacchete del Barcellona proponendone una versione meno robotica, più agile, e che ha girato la Spagna intera per piacere e per lavoro ma non è mai stato al Camp Nou. Solo perché non mi hanno mai invitato, tiene a far sapere. Con i suoi giocatori non è né sergente né di ferro.  «Cerco di tenere il giusto mezzo. Discuto, consiglio, io correggo loro e loro correggono me. Con le mie figlie faccio lo stesso» .

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