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LA REPUBBLICA Sneijder, De Rossi & C. i più ricchi vanno in panchina

Daniele De Rossi

(M. Crosetti) – C’è una squadra che non gioca mai, eppure costa un sacco di soldi, e c’è una squadra che gioca tantissimo pur essendo assai risparmiosa. Sono i due volti di un campionato di passaggio, sospeso tra la fuga di talenti e capitali (effetto collaterale positivo: la riduzione del monteingaggi) e l’affermazione di giovani con più spazio, più prospettive, la famosa necessità che diventa virtù. Queste due squadre non hanno un nome ma sono piene di nomi, non rappresentano città o tifoserie, semmai esigenze e tendenze. La squadra dei contratti pesantissimi e quasi inutili contro la squadra delle rivelazioni. Se davvero potessero sfidarsi sul campo e non solo sulla carta, è assai probabile che vincerebbe la seconda, cioè il futuro. Nella squadra di quelli che giocano poco o niente, costando troppo, i due simboli sono De Rossi e Sneijder, 6 milioni di euro netti a testa all’anno. L’Inter sta facendo di tutto per liberarsi dell’olandese, la Roma quasi certamente non si separerà dal suo secondo simbolo in ordine storico dopo Totti. Va detto che i giallorossi, al tempo di Zeman, sono diventati ottimi fornitori della squadra esosa e latitante: il loro portiere caduto in disgrazia, Stekelenburg, qui invece è titolare fisso, così come Taddei che all’Olimpico non riesce più a comparire. Questa squadra con troppo passato e forse poca lungimiranza vale almeno una trentina di milioni netti d’ingaggio; e comunque nessuno ha costretto con la forza i presidenti a firmare certi contratti di cui, poco dopo, è stato facile pentirsi, come ogni tanto Sneijder prova a ricordare a Moratti. Sono naturalmente diverse le ragioni per cui gli ex assi strapagati non giocano. Può essere colpa di infortuni (Chivu, Vargas), oppure di scelte tecniche (Palombo, Taddei, Burdisso), oppure di mancati inserimenti nella nuova realtà (Lucio).

Ci sono campioni ancora in perfetta efficienza come De Rossi, che però non trovano l’intesa con chi li allena o governa, oppure casi clinici come Pato, quello che ogni mattina — secondo Berlusconi — vive una crisi d’identità di fronte allo spec- chio. E ci sono misteri irrisolti, presunti fenomeni mai davvero sbocciati, come Maurito Zarate con la sua eterna incompletezza. Ma da qualunque parte la si guardi, la squadra inutile e costosa rappresenta non solo un peso, ma un segnale di come il calcio non possa più essere condotto: perché le spese devono essere ridotte subito, e ricondotte a ragione nel momento in cui un presidente e un procuratore si trovano di fronte per disegnare l’architettura di un contratto. Poi, è troppo tardi. Nella stagione del grande cambiamento, con Ibra, Thiago Silva e Lavezzi venduti al miglior offerente, senza neppure un acquisto folle nell’ultimo mercato estivo (segnale di rinsavimento forzato, più che di oculatezza), lo spazio lasciato libero da stelle al tramonto e senatori tramontati è stato colmato dal talento dei più giovani.

Forse El Shaarawy sarebbe esploso ugualmente, anche con Ibrahimovic (l’anno scorso giocò comunque 28 volte), ma forse non sarebbe diventato subito il capocannoniere ventenne, apripista di nuove generazioni capaci di alzare la cresta non solo dal coiffeur. È lui il capitano ideale della squadra dei nuovi fenomeni a costo ridotto (il rossonero è quello che guadagna di più: 800 mila euro a stagione, però l’aumento è in arrivo). Qui c’è un portiere di belle speranze come Perin che incassa 200 mila euro all’anno, c’è un centrale difensivo come Juan Jesus che sfiora appena i 550 mila, ci sono Florenzi a 600 mila euro (dunque la Roma non è solo fornitrice negativa) e Bonaventura a 400 mila. In tutto, questi ragazzi non arrivano a guadagnare 6 milioni di euro in undici, almeno sette volte meno dei loro colleghi un po’ decotti. Anche se il confine è labile: in Inghilterra c’è un ragazzo che non gioca quasi mai, eppure guadagna come un petroliere. Si chiama Balotelli e ha già un sacco di futuro che si chiama passato.

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