

(M. Cecchini) – La fine delle storie d’amore si capisce da piccoli segnali. Una pettinatura giudicata senza più benevolenza, un viaggio fatto senza più passione, qualche ruga notata senza più comprensione. Ecco, l’impressione è che la Roma si stia avviando verso un momento del genere. Da ora in poi tutto il bello e il buono che potrà ottenere dovrà conquistarselo con le proprie forze, cioè senza più la benevolenza di un ambiente che mai come in questa stagione ha esercitato la virtù della speranza. Il 4-0 di Torino — con la scia della contestazione notturna a Luis Enrique e alla squadra, più la maxi-squalifica rimediata da Lamela a causa dello sputo a Lichtsteiner — ha rappresentato il punto di svolta. E quando le buone idee arretrano (anche educative) siamo tutti più poveri. Confusione spagnola Inutile nasconderlo, il tifo è in ebollizione. Una sessantina di tifosi nella notte dopo il match hanno atteso la squadra a Fiumicino, insultando soprattutto Luis Enrique e il suo staff. «Tornatene in Spagna», è stata la frase più ascoltata. Etere e web, poi, sono state impietose con l’allenatore, a cui l’epiteto più misericordioso affibbiatogli è stato quello di «stagista». A Trigoria, dopo i colloqui con i dirigenti, l’asturiano è stato descritto scosso, incapace di capire i motivi di queste flessioni di rendimento. Certo, i dati fanno pensare: negli ultimi 50 anni solo due volte (1963-64 e 2004-05) la Roma ha subito più delle attuali 13 sconfitte in campionato (15 stagionali). La dirigenza però ribadisce piena fiducia in Luis Enrique e solo a fine stagione gli chiederà se se la senta di ricominciare in un ambiente che però non gli perdonerà più nulla. E se il sì arrivasse senza esitazioni — come sembra, visto l’orgoglio dell’asturiano — la storia d’amore continuerà, anche perché in ogni caso le alternative non sarebbero semplici. Ancelotti? Bielsa? Prandelli (questi ultimi seguiti anche dall’Inter)? Nomi affascinanti, ma nulla più.