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SPORTWEEK. Borini: “Scusate, vado di fretta”

Fabio Borini

(F. SALVIO) – Seduto al bar del piccolo centro sportivo di Calderara, 12 km da Bologna, dove iniziò sul serio a fare calcio, Fabio Borinimostra l’altra faccia dell’attaccante che, a 20 anni, afronta le partite e la vita come il ruolo impone e il carattere suggerisce: aggredendo. Voce ridotta a un sussurro, laccetti del cappuccio della felpa mordicchiati nervosamente, fa persino tenerezza, pensando al giocatore – scatto da centometrista e movenze alla Inzaghi – capace di conquistare a suon di gol un posto fisso nella Roma e la Nazionale al primo, vero campionato di A.Della sponda giallorossa della Capitale è diventato un idolo anche per quello che c’è intorno alle sue reti:le esultanze con la mano a mo’ di coltello fra i denti («È il mio manifesto di vita: non mollo mai») e un tremendismo, ma solo in campo, che gli è valso il soprannome di Nascar («Mi piace meno Er Caciara; meglio allora Er Pupino, se penso che mi paragona, in piccolo, al “Pupone” Totti…»). Il fatto è che Borini ha capito in fretta come gira il mondo (del calcio): coraggio con la palla e prudenza con le parole. Non abbastanza però da evitare – rotto il ghiaccio – di afrontare anche questa intervista con il piglio che, palla al piede, lo caratterizza.

Cosa le fa venire in mente questo posto, Calderara?
«Il calcio inteso come gioco, nel vero senso della parola. Non esisteva un vero e proprio centro sportivo,maun parco. Infatti dicevo ai miei: vado al parco a giocare».

Ha iniziato qui?
«ALongara, un paese vicino. Avevo 4 anni e mezzo. A 6 giocavo con quelli più grandi di me, finché mi ordinarono di stare conquelli della mia età. Non mi stava bene e lasciai. Andai a Bologna, e ripresi a sfidare quel l i più grandi di 4 anni».

Che cosa le dicevano, a vederla?

«Facevano una faccia strana. Pure in partita, quando gli passavo tra le gambe con la palla. A 8 anni venni al Calderara, poi il Bologna e, a 16, il Chelsea».

Aveva fretta di crescere?
«Decisi in due ore di lasciare l’Italia, sapendo di fare un salto nel buio. A me le cose facili non piacciono. Se scegli la soluzione più comoda non capisci qual è il tuomassimo. Stavo organizzando le vacanze con gli amici a Riccione, e una settimana dopo partivo per Londra»

Nessun ripensamento?
«Una volta, un paio dimesi dopo. Ero in crisi, mi mancava casa. Sofrivo la differenza di lingua, cultura, abitudini, e poi l’obbligo di allenarmi tutti i giorni, mattina e pomeriggio.Non ero abituato. Però ho capito che se non mi allenavo, non avrei giocato. E quando non gioco, mi incazzo. Così mi sono dato una regolata. La svolta fu una telefonata coi miei: mi diede forza e fiducia».

Viveva da solo?

«Nei primi tre anni ho abitato in una casa vicino al campo d’allenamento. Devo al proprietario, Keith,una ricetta speciale per il barbecue. Si tratta di un dolce, credo di sua invenzione. Si taglia a metà una banana, lasciandole la buccia, si farcisce di cioccolato a scaglie, la si avvolge conla carta d’alluminio e la simette sulla brace. Quando è cotta, si sbuccia e si mangia. Ora è il mio piatto forte quando ho gente a cena. Nell’ultima stagione al Chelsea mi trasferii in aftto vicino allo stadio del Fulham. Facevo la spesa in un supermercato con prodotti italiani. Se no mangiavo a Il Mascalzone, un ristorante italiano: la cucina inglese non è ideale per un atleta».

Frequentava compagni di squadra?
«Jacopo Sala, l’altro italiano della Primavera del Chelsea. Più che altro, lui frequentava me, perché, tra i due, ero io quello con lamacchina. Poi, in Italia, ho fatto parecchia fatica ad abituarmi alla guida a sinistra».

Perchè ha lasciato il Chelsea?
«Volevo un contratto lungo, loro ofrivano una sola stagione».

Non c’era fiducia?
«Non l’avevano quelli che dovevano decidere. Ma non penso ad Ancelotti, l’allenatore: è stato un padre».

La Nike l’ha scelta come testimonial di The Chance, il talent creato per dare una possibilità nel calcio ai ragazzi di tutto il mondo. Cosa vuole dire loro?
«Di non preoccuparsi se si sentono impazienti. Perché se a volte l’impazienza può essere un problema, in quanto ti porta ad aver fretta, è anche sinonimo di voglia: una spinta ad arrivare il prima possibile il più in alto possibile».

Quanto conta la fortuna, nel calcio?
«Non è che ne abbia avuta tanta. Diciamo che ho avuto la fortuna di fare le scelte giuste. L’ultima, lasciare Parma dopo due mesi per la Roma».

Cosa le faceva pensare che sarebbe stata una decisione azzeccata?

«Il fatto che la società stava costruendo una squadra giovane, con un allenatore giovane, dalla mentalità e dal gioco poco italiani. Si vede che Luis Enrique è stato al Barcellona: ama attaccare. E non è il classico tecnico di casa nostra che si affida ai vecchi perché dei giovani non si fida. In Italia si ha paura che in campo sbaglino, perché il coraggio non viene perdonato, senza risultati».

Cosa pensa, quando sente dire da un allenatore, a proposito di un suo giocatore: è giovane, non carichiamolo di troppe responsabilità?
«Che sbaglia. Se non gliele dài, le responsabilità, non crescerà mai».

Quando capirà di avercela fatta?

«Quando vincerò qualcosa da protagonista. E non vorrò più fermarmi».

Qual è la lezione più importante di questi primi anni di professionismo?

«Che, nello spogliatoio, l’ultimo arrivato deve sempre stare zitto. Prima, dicevo subito quello che pensavo».

Quindi, quando parlano Totti o De Rossi non apre bocca.

«Ovvio. Però se parlano giusto. Se no dopo un po’ glielo dico. Mica sono un cagnolino ubbidiente…».

Li ha poi rivisti, gli amici che non riuscì a salutare prima di Londra?
«Sono i miei migliori amici. Quando usciamo, scelgono loro la serata: il pub, una pizza. Cose normali, che mi tengono coi piedi per terra e mi ricordano cosa sarebbe stata la mia vita senza calcio»

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