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L’UNITA’. Gli undici metri di Di Bartolomei, uomo serio e cuore giallorosso

Festival di Roma

L’UNITA’ (A. CRESPI) – A volte, come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti. E ieri sera Carlo Verdone, che di Moretti è un collega altrettanto amato ed importante, ha usato una parola molto fuori moda. Ha detto, di Agostino Di Bartolomei, che era una persona «seria». Un calciatore, un capitano ed un uomo«serio».Che non «fomentava» , parola sempre di Verdone, parola molto romana e quindi pregnante nel caso di Agostino, o “Ago” come lo chiamavano e lo chiamano tutti, da vivo e da morto. E qui occorre fare alcuni passi indietro.
Siamo al festival del cinema di Roma, nella sala Petrassi dell’Auditorium. Ma fra colleghi si parla di calcio, e senza l’aria da carbonari che assumiamo di solito noi cinefili quando, in occasioni cinematografiche, ci abbandoniamo alla nostra chiacchiera preferita. Viene presentato “11 metri”, documentario di Francesco Del Grosso suAgostino Di Bartolomei, il capitano della Roma più bella di sempre, quella di Liedholm,
che nell’83 conquistò uno storico scudetto e nell’84 arrivò in finale di Coppa dei Campioni. Finale programmata all’Olimpico, segno del destino e della volontà degli dei. Dei che, però, furono perfidi, perché quella finale casalinga la Roma riuscì a perderla, ai rigori, contro una corazzata di nome Liverpool. Di Bartolomei era in campo, segnò il primo rigore, poi alcuni suoi compagni sbagliarono e alcuni non tirarono proprio, e i romanisti doc sanno di chi e di cosa stiamo parlando. Ci arriviamo.

Ciò che qualcuno potrebbe aver dimenticato è che quella finale si giocò il 30 maggio del 1984, e lo stesso giorno di 10 anni dopo Agostino Di Bartolomei si uccise. Lontano da Roma,
nel Cilento, a Castellabbate: quando nel documentario viene inquadrata la piazzetta di quel paesino a picco sul mare il cinefilo di oggi sorride ed esclama «ma guarda un po’, è il paese di Benvenuti al Sud»,
ma quel Sud non diede davvero un bel benvenuto al capitano della Roma, che pure tanto lo amava. Non si
è mai capito davvero perché Ago si sia sparato in quel giorno fatidico. Nel film, ciascuno degli intervistati dice la sua. E il figlio Luca, che assomiglia al papà in modo impressionante e che era in sala assieme alla
mamma Marisa, non crede alla storia della data: «Secondo me uno non sceglie il giorno per suicidarsi. È una decisione talmente stronza ed imponderabile…». Dice proprio così, Luca: «stronza ed imponderabile ». Lo dice con la voce spezzata, la voce giusta di un figlio che a distanza di17 anni è probabilmente ancora arrabbiato con il padre che l’ha lasciato. E al momento, chissà perché, ci è sembrata la più bella definizione del suicidio che abbiamo mai sentito.

È un film di testimonianze, “11 metri”. C’è anche un po’ di repertorio, ovviamente struggente: come le interviste di un Galeazzi ancora quasi magro alla festa per lo scudetto nel 1983. Liedholmtravolto e gettato in aria dai tifosi («la più grande paura della mia vita»), Bruno Conti in mutande che fa lo scemo («eravamo tutti ubriachi», confessa oggi), e Di Bartolomei che anche in quell’occasione è «serio», e bene ha fatto Verdone a ricordarlo in quel modo. Ci sono anche i momenti calcisticamente tristi: soprattutto quella finale di Coppa che per Di Bartolomei, romano e romanista, doveva essere un buco nero – anche perché, il figlio Luca ce lo perdonerà, credere in una banale coincidenza è davvero difficile. Ma bene ha fatto il regista a non montare i rigori sbagliati da Conti e Graziani, e le beffe di Grobbelaar – il portiere del Liverpool – che faceva loro le linguacce prima del tiro. Si parla, ovviamente, di quella che è “LA” leggenda metropolitana della Roma di quel periodo, la famosa e mai confermata lite fra Di Bartolomei e Falcao perché quest’ultimo non aveva voluto tirare uno dei rigori. Franco Tancredi, portiere di quella Roma, la smentisce decisamente: «Falcao non stava bene, chiese di non tirare perché era distrutto dai crampi. Negli spogliatoi
nessuno litigò con nessuno. Eravamo tutti talmente distrutti che rimanemmo lì un’ora nel silenzio più totale. Poi ce ne andammo, chi in conferenza stampa chi a casa»
. E se lo dice Tancredi, che era lì, forse possiamo chiuderla qui. O meglio, chiudiamo su un tono leggero, sulle parole di Roberto Pruzzo (in sala, di quella Roma, c’erano lui, Righetti e Chierico; della Roma di oggi, un titolare – Perrotta –, un ragazzino – Viviani – e due dirigenti, Baldini e Sabatini). Ha detto il bomber: «Vorrei ancora ringraziare Ago
perché, pur essendo un rigorista infallibile, a un certo punto lasciò
che fossi io a tirare i rigori per farmi vincere la classifica dei cannonieri». Facciamo finta che il film si intitoli “11 metri” per questo.

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