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EDITORIA. ‘Fuori Gioco’, il calcio diventa strumento di potere.

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Pubblichiamo uno stralcio del libro di Gianfrancesco Turano, nel quale viene analizzato il rapporto tra i presidenti dei maggiori club e il potere. Da Della Valle a Berlusconi, da Preziosi a Moratti, non manca il numero uno del Napoli Aurelio De Laurentiis, del quale viene ripercorso il lungo approccio per arrivare a capo della società partenopea.

Aurelio De Laurentiis è l’erede di un piccolo impero al crepuscolo. Da quando ha incominciato a lavorare come produttore, nella seconda metà degli anni Settanta, l’industria cinematografica italiana ha continuato a declinare. Oggi il cinema pesa soltanto per il 26 per cento sui ricavi del gruppo De Laurentiis. Un altro 3 per cento è frutto di attività imprenditoriali secondarie. Il flusso principale (71 per cento) arriva dalla Società sportiva calcio Napoli, costituita nell’agosto del 2004 dopo il fallimento dei precedenti azionisti e la retrocessione in serie C1. In questa rapida inversione di ruoli fra l’attività imprenditoriale di partenza e il calcio, De Laurentiis ha seguito il percorso di alcuni colleghi che, forse non a caso, sono fra i suoi partner di calciomercato più frequenti: Maurizio Zamparini del Palermo e Gianpaolo Pozzo dell’Udinese. In tre anni, quanti ne sono passati dal 2004-2005 al ritorno della squadra in serie A, il presidente del Napoli ha spostato il baricentro dei suoi affari verso il pallone, convinto che i sostenitori degli azzurri, stimati il quarto gruppo di tifo italiano dopo la trimurti Juventus-Inter-Milan, possano dargli soddisfazioni economiche più grandi degli spettatori del cinema. I dati gli danno ragione. Il primo triennio di gestione del Napoli dal 2004 al 2007 è costato poco meno di 17 milioni di euro. Nel giugno del 2010, l’ultimo bilancio disponibile, la società ha chiuso il quarto esercizio consecutivo in utile. Dal 2008 al 2010 il club ha guadagnato in totale circa 24 milioni di euro netti. Nello stesso periodo, la controllante Filmauro ha realizzato profitti netti complessivi – Napoli incluso – pari a 25,6 milioni.

Non ci vuole un genio dell’economia per capire che De Laurentiis fa i soldi con Lavezzi e Cavani e va sì e no in pari con De Sica e Ghini. Nel futuro immediato l’orientamento, con il Napoli in rialzo e il cinema in ribasso, dovrebbe confermarsi. Le avventure di Christian De Sica mostrano la corda, tanto che si parla di ricostituire il tandem degli anni migliori con Massimo Boldi. Nel frattempo il Napoli è arrivato terzo in campionato e ha conquistato una qualificazione diretta in Champions League che da sola vale una decina di milioni di euro, senza contare le vittorie ottenute nell’edizione 2011-2012. A differenza dell’amico Diego Della Valle, che stenta a ingranare con la Fiorentina e preferisce proiettarsi sullo scenario politico post-Berlusconi, De Laurentiis mostra un attaccamento crescente verso il club. Anche se i conti stanno funzionando, il fattore emotivo ha un ruolo dominante. Per il romano De Laurentiis, come già per il romano Vittorio Cecchi Gori con la Fiorentina, la squadra è l’occasione di un ritorno alle origini e alle radici della famiglia, partita da Torre Annunziata alla conquista del cinema. Sia nella Filmauro sia nel Napoli, le cariche aziendali riflettono  la fedeltà di De Laurentiis alla struttura familistica di stampo meridionale. Nel consiglio di amministrazione del club i due vicepresidenti sono Jacqueline Baudit, la moglie svizzera di Aurelio, e il terzogenito Edoardo, nato nel 1985. Valentina, la figlia nata nel 1981, fa parte del consiglio di amministrazione. Il primogenito di Aurelio, nato nel 1979, si chiama Luigi come il nonno ed è consigliere della Filmauro insieme ai genitori. Vicepresidente è il fratello Edoardo, mentre la presidenza della holding è riservata a Maria Rendina, la madre di Aurelio, nata a Roma il 13 novembre 1916. Rispetto alle accomandite maschiliste dei presidenti del Nord, casa De Laurentiis è il paradiso delle pari opportunità. A metà degli anni Novanta lo statalismo va in crisi. La grande stagione delle privatizzazioni investe anche il cinema. Gli studios di Cinecittà, a capitale pubblico, entrano in un elenco di dismissioni che include banche e industrie. Fra le banche c’è la Bnl, che è il maggiore partner creditizio dell’industria cinematografica italiana fin dal dopoguerra. La Banca nazionale del lavoro condivide con Cinecittà anche il manager, Luigi Abete. Tocca a lui occuparsi di cedere ai privati la gestione degli studios di via Tuscolana che non lavorano più al ritmo di una volta, colpiti dalla crisi del cinema nazionale e dalla concorrenza di altri centri di produzione aperti nell’Europa orientale. All’inizio del 1998 la privatizzazione si conclude con l’insediamento del nuovo consiglio di amministrazione. I nuovi soci privati sono Aurelio De Laurentiis e Vittorio Cecchi Gori, che entrano con una partecipazione inferiore a quella prevista dall’aumento di capitale iniziale. Sempre i soliti invidiosi fanno notare che i due privati sottoscrivono in partenza azioni per una somma inferiore alla loro esposizione debitoria verso Cinecittà: i privati versano 7,5 miliardi di lire in tutto contro i 23,5 miliardi di lire pubbliche sborsati dall’Ente cinema. Nel 2009 la situazione è la seguente: dopo una serie di avvicendamenti rispetto allo schema di cessione del 1998, la gestione di Cinecittà è in mano a Cinecittà Studios, controllata all’80 per cento dai privati dell’Ieg (Italian Entertainment Group) e per il 20 per cento da Cinecittà Luce, la società pubblica proprietaria dei teatri e del terreno. I soci dell’Ieg sono il padrone della Fiorentina Diego Della Valle, Aurelio De Laurentiis, la finanziaria lussemburghese Orium della famiglia Haggiag (i proprietari dei cinestudi Dear), il costruttore romano Fabrizio Navarra e lo stesso Abete, che nella vicenda Cinecittà ha vestito tutte le casacche: è stato banchiere creditore con Bnl, privatizzatore come manager pubblico e utilizzatore finale privato. Il costo dell’operazione di privatizzazione, già molto contenuto, è abbondantemente compensato dalla possibilità di sfruttare un marchio che lo Stato ha, di fatto, regalato. Il Napoli di Ferlaino e Maradona. Dopo aver visto come vanno gli affari di Aurelio De Laurentiis nel campo del cinema, passiamo al settore più redditizio, quello del calcio. Il produttore di origine campana compra il Napoli nell’estate del 2004 per 32 milioni di euro, battendo la concorrenza di Gaucci e Zamparini. La conquista della squadra va a segno dopo due tentativi andati a vuoto, uno nel 1997 e uno nel 2000. Il terzo riesce perché il club è appena fallito dopo venticinque anni di vita spericolata. Il crac finale è da attribuire a Salvatore Naldi e al suo predecessore Giorgio Corbelli. Ma la crisi della squadra risale a molto tempo prima, durante la gestione di Corrado Ferlaino, costruttore che deve la sua fortuna imprenditoriale alla capacità di destreggiarsi fra i clan democristiani imperanti sul Golfo nella Prima Repubblica, cioè soprattutto i seguaci di Antonio Gava e gli andreottiani. Ferlaino è stato uno dei proprietari di club italiani di serie A più longevi. Il suo regno incomincia nel 1969, quando l’ingegnere napoletano subentra al comandante Achille Lauro, ed è durato fino al 2002. Fin dall’inizio della sua presidenza Ferlaino punta sugli ingaggi clamorosi. È suo il record di mercato degli anni Settanta, quando compra il centravanti Beppe Savoldi dal Bologna. I due miliardi di lire spesi nel 1975, attualizzati ai prezzi odierni, sono pari a 10 milioni di euro, che possono sembrare una miseria rispetto ai valori odierni del calciomercato. Ma al tempo il transfer di Savoldi scatena discussioni epocali sulla decadenza della società italiana appena uscita dalla crisi petrolifera e dall’austerity del 1973-1974. I tifosi già pregustano il primo scudetto. Ma i miracoli richiedono tempo, come sanno i devoti di san Gennaro. Nonostante le spese, il Napoli vive stagioni mediocri, a eccezione di un secondo posto nel torneo 1974-1975 e della vittoria in Coppa Italia l’anno dopo, con Savoldi al centro dell’attacco azzurro. Alla riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri nella stagione 1980-1981, Ferlaino torna a far sognare i napoletani con l’ingaggio del difensore Ruud Krol, capitano della nazionale olandese e vicecampione del Mondo nel 1974 e nel 1978. Ma neppure con Krol succede niente. Quattro anni dopo Ferlaino tenta un altro rilancio: il 5 luglio 1984 arriva allo stadio San Paolo il Messia in carne e ossa, Diego Armando Maradona, che si infila la maglietta con il numero dieci. Con lui in squadra, il Napoli vincerà due campionati nel 1987 e nel 1990. Le modalità dell’arrivo di Maradona la dicono lunga sul comitato di potenti che gravita attorno al Napoli. L’acquisto del calciatore dal Barcellona viene garantito attraverso un accordo fra l’allora sindaco dc, Enzo Scotti, e il vertice del Banco di Napoli retto dal potente banchiere di nomina democristiana Ferdinando Ventriglia – detto “‘o Professore” per avere insegnato qualche mese all’università dopo la laurea – che è al suo secondo mandato nella maggiore banca del Mezzogiorno. Dopo la prima reggenza tenta di fare carriera a livello nazionale ma resta coinvolto nel crac della Banca Privata di Michele Sindona. Al processo, Ventriglia ottiene l’assoluzione ma perde la corsa alla poltrona di governatore della Banca d’Italia per l’opposizione del suo ex protettore Guido Carli, nemico acerrimo di Sindona e del leader repubblicano Ugo La Malfa. Del Professore si favoleggia che abbia un potere di ricatto enorme grazie al possesso della famigerata “lista dei 500”, l’elenco dei grandi evasori italiani con i conti nella banca svizzera di Sindona. Dopo un’esperienza al Banco di Roma e alla direzione generale del Tesoro con il ministro Emilio Colombo a metà degli anni Settanta, Ventriglia torna al Banco di Napoli nel 1983 come direttore generale. Il Banco, già disastrato, è a capitale pubblico. È quindi con un finanziamento della collettività che arriva Maradona. Viene da dire che, fra tanti sprechi, non è stato il peggiore. Il consiglio di amministrazione del Napoli di Ferlaino recluta i parlamentari de
mocristiani Alfredo Vito, re delle preferenze in Campania, Clemente Mastella e Guido D’Angelo. La lottizzazione correntizia è perfetta, con Vito a nome di Antonio Gava, Mastella in quota a Ciriaco De Mita e D’Angelo in conto al fedelissimo andreottiano Paolo Cirino Pomicino, “‘o Ministro”. Un altro grande tifoso azzurro è Biagio Agnes, direttore generale demitiano della Rai. Ma il Napoli non è solo un affare della Dc. La squadra aggrega l’intero spettro del potere partenopeo pre-Tangentopoli, con il socialista Giulio Di Donato e il liberale Francesco De Lorenzo, altri due cardini dei governi nazionali di pentapartito. I re di Napoli, cioè Scotti, Cirino Pomicino, Vito, De Lorenzo e Di Donato, finiscono tutti sotto inchiesta, insieme ad altri politici minori, per concussione, corruzione, ricettazione e abuso di ufficio lo stesso giorno, il 26 marzo 1993. Nella lista degli appalti bersagliati dalle mazzette ci sono i 500 miliardi di lire previsti per i Mondiali di Italia ’90. Ferlaino finisce agli arresti domiciliari nel maggio del 1993. I giudici lo accusano di avere dato 400 milioni di lire a Vito per ottenere l’appalto sulla ricostruzione dei Regi Lagni, i canali borbonici che vanno da Avellino a Villa Literno nel Casertano. Nel 1999 il Napoli di Ferlaino è a fine corsa. Per anni il club ha speso in ingaggi il doppio dei 20 miliardi che ricavava. Aurelio De Laurentiis costituisce una società, la Auro calcio 2000, con l’intenzione di acquistare la squadra per 120 miliardi di lire. Convoca una conferenza stampa e annuncia che sarà la Filmauro a salvare il club decaduto. L’operazione non riesce. Ferlaino denuncia De Laurentiis in sede civile per aver turbato la campagna abbonamenti e si mette d’accordo con Luis Gallo e Giorgio Corbelli, che rilevano la squadra metà ciascuno. In omaggio alla regola che nel calcio le cordate non funzionano, Gallo esce di scena e Corbelli, l’inventore del network di vendite Telemarket, rimane da solo alla guida

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