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Dagospia.com – Spalletti ‘grande uomo’, non andare via

(G. Dotto) – Ci ho ripensato. Lucio Spalletti non devi andare via. Ne me quitte pas. “Grande uomo/non andare via”, versione riveduta e corretta. E’ che per cinque minuti sono entrato nella sua testa. Mi è bastato amarlo. M’ha guidato una torcia potente, qualcosa tra Jacques Brel, Mia Martini, Tagore e Kambei, il samurai di Kurosawa. Puoi entrare nella testa di chiunque, se sei capace di amarlo il tempo che basta, cinque minuti. Non di più. Nella testa della figlia di Pino Daniele che guarda il cielo e cerca il padre, di Tomas Milian vecchio e stanco, la sera prima di morire.

Puoi entrare nella testa di una mosca o di Sayed, l’egiziano che fa il turno di notte, ogni notte, qui sotto al distributore dell’Agip, incastrato nella sua stupida sedia di plastica a fantasticare, puzzolente di benzina, cose lontane e corpi che non può toccare. Sono entrato nella testa di Aldo Biscardi, orfano nel suo grande letto del Processo che lo allattava, voglioso solo di smemorare. In quella della dolce Polly, la scrofa violentata dai due ragazzi in una fattoria australiana. In quella di Charles Manson oggi, malato e pazzo, se vuoi, se ti riesce per un attimo di amarlo prima che di schifarlo.

Io sono entrato nella testa di Spalletti e sono diventato Spalletti. Per cinque minuti. Non è stato semplice. Ho dovuto farmi largo, oltre il gigantesco dispiacere del dopo derby che lo stordiva, sbracciare nel buio fondo dei suoi tetri pensieri. Un gigante nella sconfitta, se paragonato alla qualunque euforia del suo dirimpettaio, nano nella vittoria. Sono andato oltre il suo malessere e l’ho toccata con mano la ferita aperta. E la sua stanchezza. Sono andato anche là dove forse nemmeno lui se la sente di arrivare, oltre il manifesto fuorviante e pedante del “resto solo se vinco qualcosa”. Un harakiri penoso, tutto da decifrare.

E sapete dove sono finito? A quella sera. Alla festa di compleanno del Pupone. Lui, Lucio, che esce dalla sua macchina con il quarantacinque giri di “Piccolo uomo” in mano. Spalletti quella sera ha perso Roma e la Roma. Quella sera che ha tradito se stesso. Lui, grande uomo, si è lasciato rimpicciolire. Avrebbe voluto e dovuto rispondere per le rime a quell’offesa gratuita e sanguinosa, lanciare l’equivalente contemporaneo del guanto di sfida, rispettando le sue radici, la sua terra, il suo onore di uomo ormai ricco, ma con le mani che restano da contadino.

Ha scelto, invece, infelicemente, la soluzione mondana, la trovatina elegante, che non è nelle sue corde ma avrebbe dovuto comunicare alla nullità snobbona del luna park che lo ingiuriava: “Queste cose non mi toccano, io sono oltre, io ci rido su”. E invece ti toccano eccome, non sei oltre, e non ci ridi su per niente. Quella sera, uscendo da casa e poi ritornando a casa con quel tristissimo quarantacinque giri per le mani, anche se non l’avevi in mano, tu ti stavi allontanando per la seconda volta da una città disperatamente volgare e da te che avevi pensato di conquistarla con le tue suadenti pose da sciamano passato nella terra di Rasputin.

E così hai cominciato a dire in pubblico: “Resto solo se vinco”. Lo hai detto a tutti, ai giornalisti, ai tuoi giocatori e ai tuoi dirigenti. Lo hai detto a te stesso, più che a ogni altro. Magari, ti sei anche convinto. Ma qui sta il granchio. Colossale come il Colosseo. Non si trattava di “vincere” banali coppe e scudetti. Vincere, per te, era altro. La sfida. Tornare e fare tua questa città da cui eri già scappato una volta pieno di piaghe. Il tuo guaio, Lucio, è che tu non dimentichi. Nulla. Ma proprio nulla. E’ più forte di te.

Inesorabile con gli altri e con te stesso. E, se in una città come Roma, non sei disposto a dimenticare, a quasi ogni incrocio, sei un uomo finito. Sei tornato da San Pietroburgo per chiudere i conti. Sei tornato per vincere. Farti amare e rispettare. E quella sera, tornando a casa, con quel tristissimo vinile in mano, anche se non l’avevi in mano, ti rendevi conto che no, non potevi vincere. Allacciamoci nel fango. Il luna park si era nel frattempo moltiplicato e tu ne eri diventato una delle attrazioni principali. Il punching ball.

Avanti gente, avanti un altro. Ti hanno insultato tutti, ma proprio tutti, a turno. La moglie del calciatore, il comico di passaggio, radio, web, giornali, il quotidiano sportivo locale (“Totti batte Spalletti”), il noto conduttore televisivo, ma sì, chi se ne fotte. Ti hanno dato dello “stronzo” e dell’”incapace”, ti hanno intimato di prenderti una vacanza e di farti “l’esame di coscienza”. Persino i tuoi tifosi ti hanno dato dell’ “idiota” con tanto di comunicato, quando ti sei azzardato a dire che non capivi perché chi dice che la Roma è una fede non va a messa la domenica.

Ti ha insultato l’Olimpico che fischiava te e i tuoi giocatori perché non buttavano fuori la palla per far entrare il Capitano. Fino a che, hai sentito, di aver perso. Di non poterne più. Di un altro anno di questa città malata, che non sa amare, nemmeno per cinque minuti, la sua squadra, almeno quanto ama il suo vitello d’oro. Ma solo linciare e pontificare. Dalla mattina alla sera. Così, alla romana, senza nemmeno un briciolo di passione.

Te lo dico, Lucio, e questa non si chiama psicoanalisi, ma sovrapposizione amorosa. Anche se dura solo cinque minuti. Il tuo limite vero, imperdonabile questo sì, è di essere ossessionato dai nemici più che gratificato dagli amici. Li coltivi morbosamente i tuoi detrattori, li fai esistere, li ingigantisci, li moltiplichi, evocandoli, nominandoli, uno a uno. Li estrai dalla polvere. Come l’ultimo allucinato Macbeth, che trasforma in mostri innocui sgabelli buoni appena per poggiare il deretano (“Perché tante smorfie? Quello che fissi è solo uno sgabello”).

I nemici non esistono per definizione. Sono immaginari. Ci nevrotizzano. Ci chiudono nella nostra rimuginante celletta di rancori e malinconie, dentro l’alveare rumoroso e sconcio di un condominio apatico dove ognuno cerca di portare a casa le sue palle sudate ogni sera, sotto le lenzuola, mai abbastanza fresche di bucato, dopo aver distribuito la quotidiana razione di sterco.

Spalletti, chiunque tu sia, non lasciarti diventare come loro. Ora che hai perso tutto o quasi, condannato dunque a lasciare dal tuo stesso proclama, inventati invece di restare. Ecco la vera sfida. Non interrompere quanto hai iniziato. Fottitene di essere coerente con qualcosa che non aveva senso pronunciare. Affacciati alla finestra e getta la tua treccia ai tanti ammiratori che di sotto ti fanno la serenata e tu hai fin qui colpevolmente ignorato. Magari non li vedi, magari non esistono nemmeno loro, forse non eccitano la tua sensibilità morbosa, ma ascolta la loro musica, invece che altro. Troverai forse così l’oltre e la leggerezza che non hai ancora trovato ma che sei degno di trovare solo per il fatto che le stai cercando.

Non condannarti a una cupa malinconia, ma lasciati andare a un’allegra e un po’ corsara follia. Non diventare vittima della tua stravaganza lunatica, ma scopri il piacere di diventare una guida per chi ti segue e ti vuole bene. Non hai vinto una coppa? Chi se frega. Questa città è troppo cinica, distratta e dispersa per concentrarsi nell’impresa. Le basta un aperitivo al tramonto per evaporare. Per me, e non solo per me, qui a Roma tu hai comunque stravinto. E non c’entrano le coppe. E nemmeno gli scudetti o i numeri. Quelle sono cose da Juve. Il giorno in cui, se, forse, mai, sì, andrai alla Juve.

Fonte: Dagospia.com

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