LA REPUBBLICA Il campo condanna Zeman: “Non facciamo il mio calcio”

Zeman in conferenza

(M.Crosetti) – Come un anziano signore in giacca a vento che accompagna i nipotini a giocare ai giardinetti in un giorno di nuvole, e poi piove. Così il vecchio nemico Zeman. Tre pesanti insulti in venti minuti, di quelli che fanno più male perché non li portano le parole ma le opere, ed eventualmente le omissioni (difensive). Insulti, e anche le sillabe digrignate sul muso da Totti al momento della sostituzione. A volte, quando piove poi finisce che diluvia.

Tre gol assai peggiori di un coro, di un’offesa in rima, di un’intervista del terzo o quarto allenatore che viene giudicato, dal tuo avversario, unico degno omologo del nulla che rappresenti: la ferocia non elegantissima della Juventus, in questo, è come acido muriatico.«Non ha funzionato niente, abbiamo giocato palloni senza senso e loro ci hanno dominati». Zeman è disarmato anche dopo. «Sono contento di allenare la Roma, però dobbiamo renderci conto che non si gioca così, forse mi spiego male io, forse i bianconeri ci mettono sempre troppo timore. Tutti devono dare di più, anche De Rossi ».

E i cori, mister? «Non li ho sentiti, avevo qualcosa nelle orecchie. Ma Carrera mi ha salutato». Stavolta ha parlato il campo, ed è stato un comizio contro l’anziano signore. E’ stato come se Zdenek Zeman si fosse offerto nudo alla Juve, con il peggio del suo repertorio classico: i canyon in difesa, i vuoti assoluti, le amnesie collettive, la sospensione di ogni idea calcistica. Per un lunghissimo tratto della partita, la Juve ha dato l’impressione di poter segnare ad ogni tentativo, perché di fronte aveva il niente. Un niente assai dialettico, nello stile del signore ai giardinetti. Prima che la mattanza iniziasse, i fotografi lo hanno scarnificato di flash, lo hanno zoomato come una bestia rara, un reperto da museo di etnologia. Lui, naturalmente, immobile.

All’inizio, il pubblico lo ha insolentito da minimo sindacale, di meno non si poteva, di più non era il caso: bastava e avanzava la partita, quella sì un’offesa incancellabile. Tre gol e due traverse, tutto subito, tutto così in fretta da misurare l’abisso che oggi separa la Juve dalla Roma, e non c’è niente di storico in questo, niente di polemico o processuale, niente doping e niente rigori regalati, niente Calciopoli e niente procure. Solo la limpidissima realtà del presente sotto forma di partita di pallone: una squadra di qua, una squadra di là, una palla nel mezzo e una porta sfondata. A volte succede, quando i bambini vogliono giocare contro i grandi e poi le prendono. Le decine di telecamere puntate addosso a Zeman lo hanno come spolpato, mostrandolo da ogni angolazione, il suo viso scavato da mille rughe azteche, la sua espressione di raggelata fissità. Come se ormai niente potesse turbarlo. E i cori d’insulto, infine altissimi: chissà se il boemo li ha sentiti così tramortito, ormai assente, altrove.

Lo hanno pure chiamato zingaro, come un Ibrahimovic qualunque.Dentro la sua giacca a vento con il cappuccio giallo, con addosso la maglietta sociale giallorossa, Zdenek Zeman è rimasto per infiniti minuti con le mani dietro la schiena, oppure conserte, ma anche in tasca. Ogni tanto si è girato verso la tribuna (a Torino, la panchina è contenuta appunto nella tribuna, all’inglese), ha salito qualche scalino a capo chino, dando la schiena al campo, poi si è seduto come il nonno quando è ormai stanco di guardare i ragazzini sullo scivolo, sull’altalena. Se avesse avuto un giornale, forse lo avrebbe pure aperto, per leggere qualche riga magari alla pagina dei necrologi, saltando le notizie sportive: hai visto mai, magari parlavano della Roma. 

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