DOPO PARTITA La lettura dell’incontro di Paolo Marcacci

Totti

Sarà il sole, che trasforma tutto come un assist che passa in mezzo a una selva di nuvole svogliate e inoffensive; sarà il vento che spazza la Tevere e agevola l’ultimo ritocco alla tintarella; sarà che persone e colori in questa misura ce li eravamo quasi dimenticati; fatto sta che il biglietto di presentazione di casa nostra è un Olimpico d’altri tempi e allora ecco perché, da subito, le rughe di Zeman appaiono un abbozzo di sorriso e gli striscioni tesi come vele verso un traguardo lontano. Si parte subito come se a Milano, due settimane fa, non fosse mai finita, come se nessun muscolo di Balzaretti si fosse mai contratto. Il Capitano gioca con le biglie, trova il vuoto tra le maglie di Taider e compagni, come quei cow boy che riescono ad entrare nel saloon senza mai farsi sfiorare dalla porta girevole e dev’essere per questo che i suoi appoggi scorrono lisci come il boccale di birra, magari boema, ordinato al bancone da un pubblico assetato di spettacolo e consapevole di trovarlo, a cominciare dal settimo minuto, quando la mattonella è libera sul lato della Monte Mario e il Dieci appare un numero eterno: interno destro a girare, come quando hai un Eberhard al polso e sai che arriverai sempre al momento giusto; Agliardi, oggi più che positivo, prova anche l’ebbrezza dell’ipnosi e racconterà ai nipotini di essersi goduto la traiettoria dal campo. Il palo, più che respingerla, decide di rimandare la palla in campo per raccontare a tutti come e Chi l’ha accarezzata. Il prosieguo della Sua partita è come se Coppola e Leone firmassero assieme la sceneggiatura: giganteggia come Brando ne “Il Padrino”, sparge attorno a sé il pathos di De Niro quando c’era una volta l’America del doppio vantaggio. Perché poi l’America con un paio di mosse azzeccate e due rimpalli fortunati la trovano Gilardino e Diamanti, quando l’ombra di metà pomeriggio ha già tagliato il prato in due e il tabellone ha messo in congelatore gli entusiasmi genoani. Non c’è rosa di una sua giocata senza spine di tacchetti avversari, il suo spirito resiste alla frustrazione, prova a trascinare la Roma e a seminare lucidità laddove sembrano le tossine avere la meglio su mezza squadra giallorossa: paradossalmente, è nell’ultima parte che rifulge la sua caratura, quando più di qualcuno si è già eclissato e il Bologna resta in agguato. Finisce che l’ultimo uovo di una ripartenza bolognese lo rompe in area Gilardino, un po’ incredulo per la solitudine, per la frittata finale di Stekelenburg e Burdisso. Incredulità ovunque, dal campo alle tribune, passando per la panchina. L’unica certezza che resta è quella su chi sia ancora il Migliore.

A cura di Paolo Marcacci

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