La Repubblica Ma quali riforme, c’è la palude. L’occasione perduta del calcio a un mese dal mondiale fallito

(M. Mensurati) La burocrazia del calcio italiano è capace di metabolizzare tutto. Persino l’Apocalisse. Un mese esatto è passato dalla mancata qualificazione dell’Italia al Mondiale. Un mese che avrebbe dovuto cambiare la faccia del calcio italiano. E invece, niente. Alla fine non è successo niente. Il racconto di come il più grande disastro sportivo italiano sia stato rimosso a tempo di record comincia il giorno dopo lo 0- 0 di San Siro con la Svezia.

THE DAY AFTERI fischi della Scala del Calcio rimbombano ancora nella testa degli appassionati quando Luca Lotti in persona interviene per rassicurare tutti: «Occorre rifondare il calcio italiano» , ordina. La frase del ministro dello Sport non può che far pensare a imminenti colpi di scena. Finalmente, pensano i più ottimisti, il governo scende in campo, smette di nascondersi dietro il dito dell’“ autonomia dello sport”, si sporca le mani e riforma un sistema collassato da ormai più di dieci anni, almeno da Calciopoli. L’illusione si fa ancora più concreta quando prende la parola Giovanni Malagò, il presidente del Coni. «Il calcio va riformato. E non si può non passare da un commissariamento, con poteri ampi e lungo. Il male esiste, è profondo, e ha radici di carattere statutario». Parole come pietre che hanno il pregio di indicare sia la malattia ( lo statuto della Figc) sia la cura (un commissariamento ampio). La road map per uscire dalla crisi è chiara: il Coni, con la copertura politica del governo, commissarierà la Figc, ne riscriverà lo Statuto e riformerà il sistema.

IL GIORNO DOPO ANCORA – Ma le cose, come ai più avveduti era chiaro già allora, non sarebbero andate così. Perché il calcio italiano è frequentato da uomini di mondo, gente che sa perfettamente che ogni Apocalisse ha un giorno dopo. E che ogni giorno dopo ha un giorno dopo ancora, e ancora e ancora. Per sopravvivere basta piegarsi un po’, abbassare la testa e aspettare che la bufera passi. Esattamente la strategia di Carlo Tavecchio. Presidente della Figc e commissario straordinario della Lega di Serie A, è lui il vero obiettivo delle intemerate di Lotti e Malagò. La strategia della coppia di governo è quella di puntare sull’onda emotiva del Paese, che in quelle ore promette di travolgere tutto, ottenere le dimissioni dell’intero consiglio federale e avviare il commissariamento. Tavecchio resiste. Quanto è goffo nello spiegare ( alle Iene) il disastro sportivo, scaricando il barile ora su Lippi, ora su Ventura, tanto è abile a governare il tavolo che meglio conosce, quella specie di sindacato- greppia che è il consiglio federale. Il discorso di Tavecchio è vigoroso e chiaro: se il Coni mette le mani sul pallone è finita per me, ma è finita anche per voi. Una minaccia mortale, a confronto della quale la moral suasion a intermittenza proveniente dai divani Chesterfield del circolo Aniene a confronto è davvero poca cosa. Il consiglio federale ascolta dunque la voce del proprio cuore e invece di dare le dimissioni in blocco segue un’altra strada, quella più rassicurante delle elezioni interne. «Ce la vediamo tra di noi».

Le regolari elezioni si terranno il prossimo 29gennaio. Al momento i candidati sono tre, Cosimo Sibilia, Damiano Tommasi, Gabriele Gravina. Nessuno dei tre è in condizione di riformare alcunché, non tanto – o non solo – per mancanza di capacità o di volontà, quanto perché, come da diagnosi di Malagò, la Figc prevede l’irriformabilità del sistema e la paralisi decisionale per statuto.

LA MOSSA DEL CAVALLO – Sconfitti con perdite nello scontro diretto contro Tavecchio, Lotti e Malagò provano così la mossa del cavallo. Un piano B che prevede di sfruttare l’altra paralisi strutturale del sistema – quella della Lega Calcio di Serie A, la sedicente Confindustria del pallone – per commissariare la Figc.
Dopo anni di non gestione da parte dell’ex presidente Maurizio Beretta, la Lega, incapace di nominare il proprio vertice e di farlo funzionare, è stata commissariata proprio da Tavecchio che, grazie al lavoro del subcommissario Paolo Nicoletti, è riuscito in una sorta di miracolo, quello di varare una riforma della governance che tolga il potere decisionale dalle mani dell’assemblea e lo consegni in quelle di un consiglio più ristretto. Adesso però è di nuovo in pieno stallo. Perché una volta varata la riforma, l’assemblea è terrorizzata che entri in funzione e la guerra trabande per nominare un ad e un presidente sta paralizzando di nuovo tutto. L’idea del n.1 del Coni è quella di convincere l’ala più riformista – e oggi maggioritaria – dell’assemblea a non decidere, far collassare da lì l’intero sistema e dunque intervenire con l’agognato commissariamento.
Ma qualcosa va storto. perché all’assemblea decisiva di fine novembre, le squadre – sulle quale si era abbattuta la solita pressione a intermittenza dell’Aniene – decidono per una soluzione di mezzo. Non nominano ad e presidente. Ma invece di lasciare tutto alla deriva chiedono alla Figc di Tavecchio di prorogare il commissariamento di Tavecchio almeno fino alla data fatidica del 29 gennaio.

LA CONTROMOSSA DEL CAVILLO – Ma il Coni non si dà per vinto. Malagò dà incarico ai suoi legali – «forse dovrebbe cambiarli» , è la battuta maliziosa che circola in queste ore – di studiare una controstrategia. L’idea è che l’atto della Figc sia illegittimo. Tavecchio è dimissionario quindi può decidere solo sull’ordinaria amministrazione, dicono. Ma Re Carlo cala l’asso: e mette sul tavolo il parere legale di un luminare, l’avvocato Luisa Torchia, già consigliere giuridico dei governi Prodi e del ministro Bassanini, secondo il quale la proroga del commissariamento è un caso tipico di atto di ordinaria amministrazione.

La resa di Lotti e Malagò – partiti per suonare e finiti suonati – è totale. «Sulla base di quanto è emerso – dice il n. 1 del Coni – non ci sono gli estremi per commissariare la Federcalcio. Vediamo se il mondo del calcio vorrà davvero cambiare» . La risposta, lo sa benissimo anche Malagò, è no. Ma importa poco. Il presidente si consola rapidamente. « Il lato positivo – aveva spiegato quando ormai era chiaro come sarebbe andata a finire – è che le mie esternazioni (la minaccia di un commissariamento della Figc, ndr) hanno ricompattato il gruppo cercando di risolvere i problemi e magari mettendo da parte tutto ciò che li separa negli ultimi tempi, e per questa affettuosa moral suasion meriterei quasi un premio».

IL VALZER DELLE AGENDE – La cosa buffa è che nel “ gruppo”, effettivamente molto compatto nel respingere ogni tentativo di riforma, ognuno procede invece per conto proprio, alla rinfusa. E il calcio che il ministro Lotti voleva rifondare un mese fa appare oggi ancora più paralizzato e incapace di cambiare. Mentre in Federcalcio è appena partita una campagna elettorale al ribasso, in Lega si va avanti a tentoni senza un progetto preciso, ostaggio dalle agende individuali di una manciata di pezzi grossi. Ognuno ha la propria. C’è quella di Claudio Lotito, il cui potere si sta consumando di giorno in giorno, che prevede l’ostruzione di qualsiasi processo come unico strumento di sopravvivenza, e quella di Urbano Cairo il quale, viceversa, essendo tra i pochi manager credibili dell’assemblea, si sta scoprendo leader accreditato, e punta forte sul Canale della Lega. C’è quella di Luigi De Siervo, il n. 1 di Infront, che si vede bene come futuro ad della Lega, e quella dei “riformisti” ( Roma, Juve, Inter e Samp su tutti) che vorrebbero cercare di valorizzare il prodotto ma lentamente perdono le speranze.

LA GUERRA DEI MANDATIE Lotti e Malagò? Se ne stanno facendo una ragione, rapidamente. Il ministro da tempo ha cambiato il target della sua azione riformista – che nello sport, a dire il vero, non è stata molto incisiva – dedicandosi da settimane allo studio della riforma sul numero dei mandati accumulabili dal presidente del Coni, che da due dovrebbero secondo i progetti – diventare tre. Lotti le ha provate tutte fino ad oggi, fallendo sempre. Adesso, con le camere a un passo dallo scioglimento, sta battendo l’ultima strada: quella di inserire la norma in un maxi emendamento presentato dal governo. Malagò, dal canto suo, già da qualche giorno aveva mollato la presa sul mondo del calcio per cercare di aiutare il ministro sulla vicenda dei mandati: «Ce lo chiede il Cio» , spiega. Che ne benefici anche lui, è solo un dettaglio: se passasse la norma, Malagò potrebbe rimanere ai vertici dello sport italiano fino al 2025. Ovviamente senza poter toccare il calcio.

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