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I ragazzi della Sud: Antonio Bongi racconta i gloriosi anni del CUCS

(S. Meloni) – Dov’è la Roma là siamo noi”. Un vero e proprio epitaffio scolpito nel cuore di una generazione e tramandato ai posteri. La Roma prima di tutto. Seguirla in casa e fuori. Conservarne l’alone magico sette giorni su sette, come fosse ogni volta una sposa in luna di miele. Gioire, piangere e dedicare una fetta della propria vita a quella che non è una semplice passione. Ma una liturgia maniacale, capace di portare ragazzi e uomini di ogni ceto sociale e credo politico da una parte all’altra dell’Europa passando per gli epici viaggi all’interno di una frastagliata Italia. Il tutto suddiviso in tre decenni: settanta, ottanta e novanta. Tra chi fa “letteratura del tifo” in tanti hanno avuto la pretesa – spesso sconclusionata – di descrivere il Commando Ultrà Curva Sud. Parecchi hanno evidenziato alcuni frammenti della sua vita, altri ne hanno strumentalizzato l’esistenza per dar corpo ad alcune teorie retoriche circa l’assenza della violenza negli stadi in passato (mai bugia fu più grande) e altri hanno dimenticato di estrapolare l’essenza di un gruppo che ha fatto scuola e che ancora oggi riecheggia all’interno di molte gradinate del Belpaese. Basti pensare ai canti creati dai ragazzi del CUCS e ancora eseguiti dalla maggior parte delle tifoserie. Forse il miglior modo per parlare del Commando è fare silenzio. E far parlare chi non solo lo ha vissuto in primo piano, ma lo ha letteralmente creato.

.Antonio Bongi risponde con un istrionico sorriso quando viene interpellato in merito. Lui, ragazzo di Vigna Clara, non troppo distante dall’Olimpico, che del gruppo è stato tra i fondatori. Riuscendo nell’impresa di dare il là all’unificazione di tutte le sigle che allora componevano il mosaico del tifo giallorosso. Gruppuscoli di pischelli provenienti dai diversi quartieri della Capitale, che senza una vera organizzazione si dilettavano nel sostenere i giallorossi. Siamo nel bel mezzo degli anni settanta. Quelli che in Italia saranno ricordati come gli anni di piombo; quelli delle sparatorie per le strade e delle faide politiche che sistematicamente si consumano in buona parte del Paese. Gli stadi, esattamente come oggi, non sono certo un luogo avulso a questo contesto ed è proprio dalle piazze – e dal loro militaresco simboleggiare – che lentamente si espande a macchia d’olio un modo più inquadrato di seguire il calcio. Nelle grandi città del Nord sono già nati i primi gruppi ultras. I Boys San, la Fossa dei Leoni e le Brigate Rossonere a Milano, gli Ultras Granata, i Panthers e la Fossa dei Campioni a Torino, gli Ultras Tito Cucchiaroni a Genova. C’è grande fermento e i settori popolari cominciano lentamente a divenire delle polveriere (nel senso buono del termine), sempre più vitali per i club che ne intuiscono la spinta propulsiva durante le partite. È proprio in siffatto periodo che Bongi, assieme ad altri ragazzi, rimane folgorato da questo genere di approccio allo stadio.

«Giocavamo contro il Torino al vecchio Comunale – racconta -. Noi ragazzini all’epoca rimanemmo colpiti dal tifo degli Ultras Granata. Un sostegno incessante con tamburi e bandiere per tutti i 90′. Così decidemmo di creare un qualcosa di simile anche a Roma. E nacquero i Boys. Un aiuto importante – spiega – ci venne dato dai Roma Club che ci concessero qualche ingresso alla Curva Nord lato Monte Mario, riconoscendoci come club. Fummo di fatto i primi a introdurre i tamburi all’Olimpico».

E la Curva Sud?

«L’anno dopo nacquero i Fedayn, provenienti dal Quadraro e posizionati in Sud, dove già esisteva una forma embrionale di tifo anche grazie ad altri gruppi. Sul lato Monte Mario (va ricordato che all’epoca non esistevano ancora gli attuali Distinti, ndr) c’era il celebre Dante, col suo storico “Daje Roma Daje”, a lanciare i cori. L’esperienza dei Boys crebbe e si consolidò. Eravamo soliti fare tutte le trasferte. La mia prima volta fu a Firenze, nel 1969. Una trasferta dovuta a mio padre che di quella città era nativo. La prima “vera” trasferta da tifoso – continua – e soprattutto da appartenente ai Boys fu invece un Bologna-Roma del 1972/1973. Vincemmo 3-1, ricordo benissimo un gol di Spadoni. Portammo il nostro striscione e fu un grosso orgoglio. Chiaramente in trasferta eravamo aiutati anche dai gruppi della Sud, che erano formati da ragazzi più grandi ed esperti. Stessa cosa avveniva in casa quando c’erano partite come Roma-Napoli – dove all’Olimpico arrivavano anche 40.000 napoletani – o ai derby, ma questo successivamente all’11 marzo del 1973 quando costringemmo i laziali ad abbandonare la Sud (il loro tifo organizzato nasce infatti là) traslocando definitivamente in Nord».

Lo striscione Boys venne mandato in soffitta nel 1977, quando tutte le sigle si riunirono per dar vita al CUCS. «Ricominciò ad essere esposto dalla finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool per volere di un giovanissimo Paolo Appavigna e di altri personaggi che poi ne faranno la storia negli anni a venire». Roma-Sampdoria, 9 gennaio 1977. Nasce il Commando: «Devo dire che avemmo la fortuna di trovare ragazzi in gamba che seppero far coesistere tutte le diverse realtà. Io mi prendo il merito, e anche l’orgoglio, di aver trovato il nome. Eravamo soliti – afferma – vederci nel parterre della vecchia Curva Sud (dove addirittura spesso facevamo delle partitelle) e ogni capo dei gruppi esistenti allora (FedaynFossa dei LupiPantere GiallorosseGuerriglieri etc etc) propose un nome. In quegli anni Fausto Iosa, vice presidente del Centro Coordinamento, ci aiutò moltissimo, anche per cose concrete come la realizzazione dello striscione. Andavano molti nomi come Commandos o Ultras. Leggendo degli articoli di politica mi imbattei nella seguente frase “Commando di ultrà assale…” e mi piaceva questo “Commando Ultrà”. Lo adottai proponendo poi un acronimo in stile università americana. Da là CUCS. Ricordo che la gente alla visione delle prime maglie con questa sigla si chiedeva sovente di cosa si trattasse».

Il primo impatto con la tifoseria?

«Ovviamente all’inizio c’era molto scetticismo. La gente veniva allo stadio reclamando il posto dove aveva seguito sempre la partita e che noi avevamo occupato per unirci. Era un perimetro di circa cento metri con i bandieroni e i primi tamburi. Qualcuno effettivamente si lamentava per il troppo baccano (sorride). Sta di fatto che abbiamo cambiato due o tre posizioni, fino ad arrivare in basso».

Un percorso segnato anche dalla tragica data del 28 ottobre 1979, divenuta tristemente celebre per la morte di Vincenzo Paparelli. «Fu una tragedia voluta da nessuno e mi sono sempre arrabbiato quando sono stati fatti cori di scherno. Ci vennero tolti striscioni e tamburi. Cercammo di parlare col presidente. Va detto che Viola per noi era come un padre – ricorda – sapeva che non eravamo cattivi ragazzi e ci consigliò di utilizzare una nuova insegna: I ragazzi della Sud”, essendo lui un appassionato de “I ragazzi della Via Pal”, romanzo scritto dall’ungherese Ferenc Molnár. “Così non vi etichettano più come delinquenti”. Questo anche perché ogni volta che andava a Milano i presidenti delle due squadre meneghine gli rimproveravano di “difendere quella gentaglia” trovando però sempre la sua imperturbabile risposta: “Veramente sono tutti miei figli”».

«Quello striscione peraltro ci portò bene – ammette –  perché nel 1982/1983 vincemmo lo scudetto. In quella stagione ci vennero fatti rientrare i tamburi mentre per lo striscione – malgrado fosse presente in diverse trasferte – dovemmo aspettare l’ultima di campionato: Roma-Torino».

Un principio di repressione dunque che ci dà la sponda per paragonare il rapporto tifosi/forze dell’ordine odierno e quello dell’epoca. «I rapporti erano sicuramente più distesi – dice – la violenza e il teppismo c’erano anche in quegli anni. Andavamo in stadi dove ci aspettavano armati fino ai denti. Anzi, simili fenomeni erano sicuramente più diffusi. Ovvio che nel post Paparelli tutto fu più difficile. Comunque con il passare del tempo le cose tornarono nei ranghi». Anni segnati da amicizie che oggi sembrano quasi impensabili. «Napoli e Bergamo furono rapporti duraturi. Ricordo il Roma-Atalanta del 1978 in cui molti ragazzi delle Brigate Nerazzurre (un grande gruppo) vennero ospitati dai nostri. Mentre, di contro, ricordo un Roma-Atalanta del 1987, a gemellaggio rotto, quando in molti ci spostammo in Curva Nord per avvicinare gli orobici. Inutile dire che ci furono pesanti incidenti quel pomeriggio».

E a proposito di incidenti Bongi non può dimenticare un Inter-Roma datato 1982«Gli interisti avevano l’usanza di mettere gli striscioni nell’anello superiore (ce n’erano due e non esistevano divisioni tra i settori), andarsene a casa a pranzo e tornarsene quando iniziava la partita. Così quando tornarono attorno alle 13:30 – rammenta – si accorsero che molti striscioni erano stati rubati dai romanisti. I nerazzurri reagirono dando vita a un putiferio da cui scaturirono 11 romanisti accoltellati. La trasferta con più tensione assieme a Napoli-Roma dello scudetto 2000/2001, quando venimmo stipati in una vera e propria gabbia e fu durissima uscire dallo stadio. Sembrava di stare in guerra». Anche con l’altra sponda di Milano i rapporti non furono idilliaci, sebbene all’inizio esistesse un’amicizia tra le due fazioni. «Non c’è mai stato grande rapporto tra Roma e Milano, va detto, anche se all’inizio degli anni ottanta esisteva un rapporto di stima con i rossoneri, foraggiato dalle conoscenze personali di alcuni esponenti del gruppi con i fondatori della sezione romana delle Brigate Rossonere. Sicuramente il fatto di aver difeso anche verbalmente gli assassini di De Falchi non è andato giù a molti, finendo per deteriorare in maniera irreparabile i rapporti».

Il ruolino di marcia del CUCS ha coinciso senza dubbio con gli anni sportivi più vividi e belli della Roma, ma anche con la serata più brutta per tutti i tifosi romanisti. 30 maggio 1984, finale di Coppa Campioni tra la Roma e il Liverpool.«Una serata storica. Dalle dieci del mattino già eravamo dentro lo stadio. Ricordo che preparammo bandiera immensa con la coppa disegnata sopra. Onestamente il tifo non fu dei migliori c’era troppa tensione e anche quando si rivede la registrazione della partita non si sente un tifo tambureggiante. Paradossalmente il sostegno di Roma-Atalanta del 1978, con la squadra in lotta per non retrocedere, fu di gran lunga migliore rispetto a quella sera. Comunque fu una giornata ugualmente memorabile: ricordo che Francesco Rocca chiese di fare il tifo assieme a noi. Vittorio Trenta, storico esponente del gruppo, lo andò a prendere in tribuna d’onore e di fatto per il primo tempo guidò il tifo con il megafono in mano. Nella ripresa era esausto e tornò in tribuna».

Poi quei maledetti tiri dal dischetto. «Durante i calci di rigore, invece, Fausto Iosa – che era responsabile del servizio d’ordine – ci disse di metterci tutti dietro la porta per non far invadere le persone. All’epoca c’era l’usanza di entrare in campo ai gol. Geppo e Mortadella erano tra i primi a farlo, basta vedere i video di Roma-Avellino l’anno dello scudetto, quando al gol di Falcao entrarono in campo ad abbracciarlo. Tra l’altro la cosa curiosa è che in quel periodo Mortadella era in servizio militare e il capitano della sua caserma lo riconobbe dandogli una settimana di punizione».

«Calciando i rigori sotto la Sud eravamo convinti di vincerla – ammette -. Il loro primo rigorista sbagliò oltretutto, aumentando questa nostra certezza. Invece le cose andarono diversamente e il boato sordo degli inglesi rimane purtroppo indelebile. Incredibile pensare a tutte le coincidenze che quell’anno facevano ben presagire: la finale designata in casa, la rimonta con il Dundee United, il tifo travolgente in tutte le partite precedenti e una squadra magnifica».

Ovviamente una domanda non può che essere sulla rivalità per antonomasia: quella con la Lazio. «Negli anni ’70 e ’80 c’era un odio profondo. La cosa è un pochino cambiata successivamente. C’era una sorta di “rispetto e comprensione” tra i capi, anche se ovviamente spesso succedevano “casini”. Ricordo particolarmente l’anno del Flaminio a tal merito».

In quegli anni la politica non poteva essere un qualcosa di accessorio. Eppure il Commando è sempre riuscito a mettere la Roma davanti tutto. «La politica era vissuta in modo tosto – racconta – quasi tutti erano schierati a destra o a sinistra. E ovviamente non era facile farli convivere. Ricordo che diverse volte mi ritrovai sullo stesso muretto con Roberto Rulli e Francesco Storace, due anime politicamente contrapposte. Noi comunque cercavamo di tenere tutto a bada perché si doveva tifare la Roma a prescindere da tutto. E credo che in questo siamo stati molto bravi».

Un’era, quella di Bongi e della sua “ciurma” tanto diversa e distante da quella di oggi. Così sorge spontanea la curiosità di sapere come vive un membro della “vecchia generazione” il modo di andare allo stadio quest’oggi«Purtroppo credo che oggi andare allo stadio sia un qualcosa di eroico tra parcheggi lontani anni luce, controlli vergognosi. Dico la verità: a volte mi sono anche sentito umiliato per questi trattamenti dopo aver dato tanto alla Roma. Io ho un figlio del 1988 che va ancora allo stadio ma già comincia a stancarsi per tutte queste modalità. Pensare che lui è cresciuto con me in trasferta l’anno dello scudetto, quando decisi di tornare a seguire con assiduità». Le difficoltà e il modo di gestire la Curva è ovviamente cambiato, anche sotto spinta coercitiva di leggi e balzelli sempre più ferrei, per non dire spesso ottusi. «Non mi permetterei mai di giudicare chi è ora al comando della curva, anche perché hanno avuto e hanno dei problemi oggettivi tra repressione, barriere e restrizioni. Io mi sono sempre schierato con loro. Ovviamente è cambiato tutto. Ci sono tante distrazioni tra televisioni, telefonini etc etc. All’epoca nostra – evidenzia –  avevamo soltanto il Commando e la più grande gioia era vedere quei 3/4 minuti di servizio su 90esimo Minuto e scorgere il nostro striscione. Del resto andavamo allo stadio già di mattina per portare il materiale e uscivamo molto dopo il fischio finale per ripiegare gli striscioni e staccare i tamburi. Era un calcio diverso, fatto da noi. Eravamo convinti di farne parte e che senza di noi non sarebbe proprio iniziata la partita. Per questo non abbiamo mai saltato una trasferta e ci tenevamo che il nostro striscione fosse presente ovunque».

E il CUCS come avrebbe reagito ipoteticamente all’apposizione di barriere divisorie?

«Sicuramente non lo avremmo accettato. Non eravamo un gruppo filo societario che faceva ogni cosa il club dicesse. Anche noi abbiamo avuto i nostri problemi e le nostre contestazioni, vedi per la questione Manfredonia. Oppure, per esempio, Roberto Rulli quando vide che eravamo affiliati ai Roma Club uscì dal gruppo. C’era una scritta sullo striscione “Centro Giovanile Giallorosso”, a lui non andò giù e la domenica dopo arrivò con le forbici tagliandolo. Senza ovviamente dimenticare la cessione al Milan di Agostino Di Bartolomei a cui fummo più che contrari e cercammo di opporci fino alla fine. Facemmo anche una bellissima lettera che uscì sul Corriere dello Sport”».

Anche Roma era diversa: «Un ambiente popolare. Ricordo la finale di Coppa Italia contro il Torino del 1980. Andammo allo stadio come se fosse la finale di Coppa dei Campioni. Facemmo un corteo dopo la partita in cui ci saranno state 3/4.000 persone, arrivando fino a Piazza di Spagna e Via del Corso. Era un tifo popolare, proveniente soprattutto dalle borgate e da Roma Sud, anche se pure Roma Nord ha sempre dato il suo contributo».

Prima abbiamo citato il “caso Manfredonia”: è statouno snodo cruciale per il CUCS?

«Credo che la reazione fu emblematica per far capire quanto e come il calcio e la Roma influenzassero le nostre vite. Buona parte della tifoseria non accettò l’arrivo di un ex laziale per giunta invischiato nella vicenda del calcioscomesse e si spaccò in due: CUCS G.A.M. (Gruppo Anti Manfredonia) e Vecchio CUCS. Sì arrivò anche a uno scontro fratricida in un Roma-Genoa di Coppa Italia. Da là cominciai ad allontanarmi. I due gruppi si ricongiunsero alla fine degli anni ’90 ma nel 1999 il gruppo si sciolse. Chissà, forse in quel momento mancava anche un po’ di quella sana cattiveria che ha sempre contraddistinto il Commando».

Oggi cosa rimane del Commando?

«Abbiamo lasciato un patrimonio in giro per il mondo. Basti pensare ai nostri cori che vengono ancora cantati in tanti stadi o al nome del gruppo che campeggia ancora in diverse curve. A nostra volta – racconta – quando nascemmo cercammo di prendere spunto dall’esterno. Ad esempio andammo alla finale di Coppa dei Campioni Liverpool-Borussia Monchengaldbach del 1977, che si giocava a Roma, per osservare da vicino gli inglesi. Dai supporter dei Reds prendemmo le melodie su cui poi negli anni sviluppammo i cori per Pruzzo (su “Oh when the saints go marching in”e Di Bartolomei, al quale dedicammo un canto che loro erano soliti utilizzare per un loro giocatore di nome Jones, molto forte nel battere le punizioni. Ma per l’inventiva dei cori io riconosco sempre grande merito a Geppo, che per me era un vero e proprio poeta. Colui che ha creato il coro sulla “Marsigliese” ancora cantato all’inizio di ogni partita dalla Sud e altri canti passati agli annali. Credo che abbiamo fatto la storia del tifo senza neanche rendercene conto. Oggi resta un grande rispetto. Anche da parte dei giovani e questo è un qualcosa che ci fa capire quanto la nostra storia sia rimasta nell’anima e nel cuore di tutte le generazioni di romanisti e non solo».

Fonte: rivistacontrasti.it

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