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Il Fatto Quotidiano Da Maradona a Totti: storie di bandiere ripiegate male

Totti e Del Piero

(D. Falcini) Talvolta la memoria è particolarmente selettiva e può permettersi il lusso della rimozione. Il più grande e amato di tutti, Diego Armando Maradona, provò a fuggire da Napoli nel 1989, dopo la vittoria in Coppa Uefa. Aveva già firmato con il Marsiglia, ma Ferlaino rifiutò di incontrare Bernard Tapie. Tre anni dopo la vicenda rischiò di finire a carte bollate: Maradona, che nel frattempo era stato fermo un anno e mezzo per la cocaina, minacciò di ritirarsi nella sua fattoria a Buenos Aires se il Napoli non lo avesse liberato. Finì al Siviglia, che pagò solo 4 dei 7,5 miliardi pattuiti. Le stimmate di quella separazione sparirono ben presto, poco conta che fosse miracolo oppure autosuggestione. “Per noi napoletani è stato l’unico demone che ci ha portato in paradiso” evoca un tifoso nel documentario Marado-napoli.

NON TUTTI gli addii sono stati così burrascosi, non tutti gli epiloghi hanno potuto beneficiare dell’immunità totale. “Non vedo l’ora che questa vicenda sia finita”, racconta oggi uno che conta nello staff della Roma. Perché ammainare Francesco Totti è stata un’operazione decisamente dolorosa e nella Capitale non vedono l’ora di poter rievocare i bei vecchi tempi senza più piatti rotti in conferenza stampa e retroscenisti tra i piedi. Strano destino accomuna negli ultimi tempi il momento del commiato di campioni e bandiere. Ancora oggi è difficile trovare un senso agli striscioni della Curva Sud del Milan nel maggio del 2009, in occasione dell’ultima a San Siro di Paolo Maldini. “Orgoglioso di non essere uno di loro” disse il capitano, che da quel momento a Milanello non sarebbe più stato di casa. Il Milan di Berlusconi ha avuto un rapporto controverso con i suoi simboli: c’è chi se ne è andato per non vedere, come Gianni Rivera, chi ha spezzato la corda, Leonardo , chi è stato usato e spremuto come un feticcio, Shevchenko e Kakà, chi ha sperimentato gloria e polvere, come Seedorf e Filippo Inzaghi dopo i trascorsi in panchina e oggi Ambrosini. E che dire di Alessandro Del Piero? Osannato dallo Juventus Stadium cinque anni fa ieri, rottamato senza rimpianti da Andrea Agnelli. Lui che avrebbe voluto continuare e invece fu imbarcato su un cargo battente bandiera australiana. I futuri successi avrebbe agevolato la successione al trono. A salvarsi solo l’interista Javier Zanetti, che dopo aver vinto il Triplete nel 2010 gode di credito illimitato. In casa nerazzurra il trauma fu vissuto ai tempi di Beppe Bergomi: dopo vent’anni di fedeli servigi, lo Zio fu pensionato da Marcello Lippi e da quel momento con i tifosi qualcosa si ruppe. Paolo Cannavaro, fatte le debite proporzioni, fu svenduto al Sassuolo dal Napoli, di cui era capitano, per mille euro. Prima di Totti, nell’Urbe c’era il Vangelo secondo Di Bartolomei. Ago, capitano dello scudetto del 1983, fu messo da parte da Eriksson e andò malincuore al Milan. Con lui in quella squadra c’era il “divino” Falcao, messo alla porta da Dino Viola nel 1984 per via del calo di rendimenti e dello stipendio più ricco della Serie A.

A Roma anni dopo sarebbe finito Gabriel Batistuta, che a Firenze voleva andarsene in ogni modo perché non aveva più fiducia in Cecchi Gori. Sponda laziale, particolarmente tormentato fu il congedo di Beppe Signori. Idolo della Nord, che scese in piazza per scongiurare la cessione al Parma, fu spedito alla Sampdoria nel 1997 e risorse a Bologna, per sprofondare anni dopo nel fango del calcioscommesse.

LA CRONACA giudiziaria ha funestato anche gli ultimi giorni di un altro capitano biancoazzurro Stefano Mauri, cui dopo 10 anni non fu offerto il rinnovo contrattuale. Fu invece costretto a scappare dalla sua Bergamo Cristiano Doni, indifendibile dopo le rivelazioni dei pm di Cremona. Fu un duro colpo per gli atalantini, che si aggrapparono a Bellini per tornare a fidarsi di un ragazzo con la fascia di capitano. Tracimanti di emozione, in tempi recenti, sono state anche le ultime apparizioni di Daniele Conti al Cagliari e Antonio Di Natale a Udine. Non sempre la provincia è altrettanto riconoscente: la prima volta Cristiano Lucarelli se ne andò dalla sua Livorno con l’etichetta del mercenario, la seconda con un’amara retrocessione in tasca. Non accade solo in Italia. Al Real Madrid si sbarazzarono senza remore di Raule di Iker Casillas: se si vuole stare sempre ai vertici, il sentimento conta meno della carta di identità. A Manchester sir Alex Ferguson, che sul rapporto viscerale con i big ha costruito un impero, recise il cordone con Roy Keane, che ancora oggi si leva macigni dalla scarpa ad ogni inciampo dei diavoli rossi. La porta dell’Old Trafford è stata sbattuta anche da Ryan Giggs, convinto di meritare una chance in panchina.

LAMPARD al Chelsea non fu rinnovato e, di ritorno dagli Stati Uniti, trovò modo di fare soffrire i suoi con un gol dell’ex in maglia di Manchester City. Qu es t’estate, dopo 22 anni, John Terry lascerà il Chelsea. Per mesi in autunno i tifosi dei Blues imputarono ad Antonio Conte le divergenze con la leggenda, immusonito in panchina. Oggi, chissà come mai, non ne parla più nessuno.

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