Juve-Roma. Match scudetto con giocatori di 3 continenti. Ma non cambia il vecchio Dna

(A.De Calò) Juve-Roma mette in gioco lo scudetto e almeno in questo senso – con le dovute proporzioni – vale quanto un Real-Barça in Spagna. Sarà troppo? Beh, inseguendo classifiche più dinamiche, conta come un Chelsea-Cityapparecchiato recentemente in Premier, piuttosto che Bayern-Lipsia nella Bundesliga.Quello di domani a Torino è un match fra giocatori che arrivano da una ventina di Paesi e tre continenti diversi. Sfida dei mondi dunque, nello Stadium. Una sfida alla quale il pianeta del football guarda anche da lontano con attenzione, curiosità e – in fondo – rispetto. La Roma si è guadagnata sul campo il titolo di sfidante dei campioni in carica con un rendimento abbastanza continuo e col successo sulle altre candidate – più o meno presunte – alla corsa per il titolo. Dopo aver battuto il Napoli al San Paolo, nel weekend scorso la squadra di Luciano Spalletti si è lasciata alle spalle anche il sorprendente baby Milan di Vincenzo Montella, vincendo l’ultima regata di una specie di Vuitton Cup applicata al calcio. A pensarci bene, la coppa che premia la selezione per la scelta del challenger che deve affrontare il detentore dell’America’s Cup– il trofeo sportivo più antico del mondo – comincia a esistere nei primi anni Ottanta,proprio quando la Roma del pallone fa un decisivo salto di qualità e si siede al tavolo delle grandi del nostro calcio. Semplice coincidenza, però quella svolta continua ad avere un significato rilevante, non solo per il club giallorosso. Sono cambiate un oceano di cose, nei trentacinque e passa anni che ci separano dal quel giorno di maggio 1981 in cui l’arbitro Paolo Bergamo annullò il famoso gol di Ramon Turone.

Sono cambiate un sacco di cose, ma la moviola – in campo o fuori – rimane al centro dell’attenzione e delle risse, trova molti appassionati soprattutto in Italia, come dimostrano le vicende legate al Real nel Mondiale per club che si gioca in Giappone. Non è un caso che proprio Turone sia interpellato dai media – come autorevole testimone – sugli effetti provocati dalle nuove tecnologie. Poche storie, Juve-Roma resta la partita più polemica del nostro calcio: la squalifica inflitta e tolta la settimana scorsa a Strootman ci conferma che il filone è ancora carico, sempre pronto a esondare. Siamo alle solite. Per fortuna questo non è l’unico tratto di continuità nella sfida tra bianconeri e giallorossi. Anche se con molte contaminazioni e qualche capriola, credo che il Dna della Juve e della Roma – in questi decenni – sia rimasto abbastanza intatto. Parlo di stile di gioco. Quello del Trap era uno squadrone fenomenale sul piano delle individualità, della personalità e della capacità di competere. Il blocco di base era lo stesso dell’Italia campione in Spagna ’82, arricchito da Zibì Boniek e – soprattutto – da Michel Platini. Forse l’espressione più alta dello stile italianista, fatto di ferree marcature a uomo, contropiede e concretezza, ma anche di improvvisazioni e buona tecnica di chi interpretava lo spartito. La Roma di Nils Liedholm, impostata attorno al divino Falcao, era qualcos’altro. Anziché difendere il risultato con un terzino schierato nel finale al posto di un’attaccante, il Barone lo inseguiva arretrando il più tecnico dei suoi centrocampisti italiani – Di Bartolomei – nei quattro della difesa che marcava a zona, cosa assolutamente rivoluzionaria nella A di allora.

Anche simbolicamente, il De Rossi che in questi anni Luciano Spalletti (ma non solo) ha arretrato spesso tra i difensori ci dice che il Dna è quello, ancora vivo. Max Allegri è meno concettuale e più pragmatico nel suo stile di tradizione italianista aggiornato al nuovo millennio. Per lui Dybala può fare la differenza come faceva Platini, il risultato coincide con l’estetica. Invece, nello sguardo di Spalletti – quando Totti non è in campo – la differenza può farla il gioco, che è costruzione premeditata: l’estetiva coincide col risultato. A Torino sono passati Lippi e Conte; Zeman e Luis Enrique hanno lasciato qualche traccia antagonista nel Dna giallorosso. Il calcio di Fabio Capello è stato una buona sintesi e una contaminazione di stili, soprattutto per i romanisti. In fondo, per essere quasi perfetta, una squadra dovrebbe voler giocare come la Roma e vincere come fa la Juve. Vedremo domani se è vero, almeno un po’.

fonte: La Gazzetta dello Sport

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