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ILPOSTICIPO.IT Squadra di governo e non di lotta: ecco il problema della Roma

De Rossi
De Rossi

(S. Impallomeni) – La Roma ci ricasca. Gioca, spreca e poi nel secondo tempo si consegna alla furia dell’Atalanta che legittima il suo straordinario campionato. È l’ennesima prova mancata, un ulteriore esame fallito. Un passo indietro, come sottolinea Spalletti. Per lo scudetto ci vuole altro. Non solo fortuna, ma soprattutto coraggio. La paura che sembrava essersi trasformata in rabbia si insinua un’altra volta tra le menti dei calciatori e determina un collasso tecnico-tattico a dir poco sorprendente.

ROMA, LA SOLITA DOPPIEZZA DI INTERPRETAZIONE – Salah fuori casa va a due cilindri: sprint a tratti ed errori marchiani. Dopo Empoli, Bergamo. L’egiziano non chiude i conti e, senza risultato pieno, si aprono dubbi, vecchi vizi di personalità, contraddizioni di vario tipo. Ruediger e Bruno Peres sono dei rimedi. A sinistra, in difesa, non c’è un sinistro naturale. I tre centrali si disperdono, Strootman e De Rossi perdono il comando a centrocampo, la squadra si allunga. Tutto diventa terribilmente un ritardo. Un ritardo sul tempo di giocata, su un recupero di un pallone, su un’uscita. Dzeko, nella ripresa, non tocca un pallone. È un secondo tempo da tregenda. È un affanno continuo. Gomez e Kessie solcano le differenze sulle fasce con D’Alessandro. È lì che si consuma il vero pandemonio. La Roma riscopre le sue fragilità. Non si capiscono le sostituzioni di Salah e Perotti. Sfumano profondità e fantasia. Si cade nell’imbuto agonistico e per un’ingenuità di Paredes. Il rigore, causato dall’argentino, al novantesimo sintetizza la folle interpretazione, sentenzia un pomeriggio che racconta la prima fuga della Juventus, che ora ha sette punti di vantaggio senza far vedere granché. Dopo la sosta, era stata sempre un’altra Roma. Con la Sampdoria e con il Napoli due vittorie diverse. La prima sofferta, con Totti risolutore, dopo l’interminabile temporale. Al San Paolo, al contrario, un’affermazione limpida, costruita con determinazione e volontà. La Roma di Bergamo assomiglia a quella post Porto. La doppiezza dell’interpretazione dei due tempi genera sospetti circa la tenuta psicologica e mentale, anche se il fondo del problema appare essere strutturale, diremmo quasi filosofico. La Roma non sa gestire pezzi di partita, non sa amministrare sfide tirate, combattute.

ROMA: VINCE SOLO QUANDO SA ESSERE BELLA – Fatica e perde la ragione in mischie muscolari. La squadra di Spalletti è condannata a fare il suo calcio. Niente di più e niente di meno. Ha nel gioco offensivo la sua vocazione. Non è una squadra di lotta, ma di governo del pallone, del possesso, di trame ben definite. Inutile provare a snaturarsi. È una squadra tecnica, molto agile e veloce in avanti. E quando tenta trasformazioni alternative, perde in efficacia e fantasia. Si ingolfa, si incarta e va in tilt come un flipper, prestando il fianco a qualsiasi verdetto. Spalletti ha cercato di offrire un piano strategico differente, ma non si riesce a cambiare registro. La Roma deve definitivamente prendere coscienza di quel che è. È un buon gruppo, una squadra forte quando esprime le sue potenzialità e tutte le sue qualità. Può essere un limite, ma sembrano pochi i margini per immaginare una squadra diversa, capace di fare risultato accettando il duello fisico, la battaglia muscolare. In alcuni casi ce la può anche fare. Si può vincere anche non esprimendo il solito calcio bello e spumeggiante. Ma resta sempre un’eccezione che non conferma la regola. La Roma di Spalletti ha l’obbligo di essere bella e vincente. Solo così può difendere il posto che occupa e sperare di vincere qualcosa di significativo. Non sarà facile, ma neanche impossibile. Basta crederci e non buttarsi giù, altrimenti anche il secondo posto potrebbe essere a forte rischio.

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