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DAGOSPIA.COM Garcia lascia la Roma dopo averla rimessa più volte e poi smessa al centro del villaggio

Rudi Garcia
Rudi Garcia

(G. Dotto) – La prima volta che l’ho incontrato a Trigoria gli ho regalato “Ascenseur pour l’échafaud”, ascensore per il patibolo, le musiche di Miles Davis per il film di Louis Malle. Volevo giocare da esorcista, mi ritrovai profeta. E non mi piace. Due anni e mezzo dopo quest’uomo di rara eleganza è finito in fondo al suo patibolo, gocciolando piccole, progressive angosce che non gli impediscono di staccarsi da questa esperienza romana con più gratitudine che rancore.

Facile essere leggiadri”, dirà il bue di turno “con tutti quei milioni di euro garantiti in banca”, ma chi conosce Rudi Garcia, francese di sangue andaluso, chi lo conosce davvero, sa che dietro quell’occhio celeste su cui galleggia da sempre un’interferenza gialla, o forse era marrone?, c’è uno speciale candore, un suo dirsi e darsi leale a dispetto dei santi e dei fanti.

Non so se Rudi Garcia sia un buono o cattivo allenatore, non so, o forse lo so, ma ora non voglio saperlo, dove e quando ha sbagliato, ma so che in questi due anni e mezzo è stato un vero romanista, più di quanto lo siano stati alcuni suoi giocatori e che, questi giocatori, lui li ha amati davvero, tutti, per il semplice, elementare motivo che giocavano con lui e per lui. Nella sua testa hanno continuato a farlo, anche quando l’evidenza ha mostrato il contrario.

Lascia la Roma dopo averla rimessa più volte e poi smessa al centro del villaggio, senza essersi riuscito a darsi il sogno che, anche insieme a me, aveva provato a sferruzzare nei minimi dettagli con golosi ricami e richiami, di carri festanti e sfilanti e trofei, bastava uno, sfidando scaramanzie private e sarcasmi pubblici.

Lui pensa positivo sempre. E’ fatto così. Lo fa per istinto e per metodo. Ma, essere ottimista nellacittà tifosa più livida d’Europa è la peggiore delle colpe. Rudi Garcia non è e non sarà mai un hombre vertical alla Luis Enrique, né un incantatore egoico alla Mourinho, ma è un uomo che sa amare e sa farsi amare. Merita l’onore delle armi.

Arriva Luciano Spalletti. La migliore scelta possibile. Se n’era andato sei anni fa nello stile di questa città, fuga il più lontano possibile dal massacro incombente. Era da sempre rimasto in qualche anfratto del cuore romanista. Ancora di più il giorno in cui il suo successore Claudio Ranieri si presentò a Trigoria che più infelice non si può: “Scordatevi il bel gioco”, che era come dire scordatevi Spalletti.

Nessuno se l’è mai veramente scordato. E lui se n’è andato veramente lontano. Passati non so quanti inverni nelle terre di Rasputin e Dostoevskji, dove si rischia dentro tramonti pazzeschi d’essere decapitati dalle lastre di ghiaccio che cadono dai tetti, dove ha fatto tanto e bene, e si ritrova ora, con un salto spericolato, passando per Certaldo, nelle assolate spirali del sogno americano, volo Miami andata e ritorno, viso a viso e corpo a corpo con James Pallotta, dove l’abbraccio può essere tutto, una copula infinita o una stretta mortale. Dipenderà solo da una cosa, i risultati.

Meravigliosa semplificazione dell’anima yankee. Ma Luciano lo sa, e la motivazione è grande. Voglio completare l’opera, ha confidato agli amici. Chiamatela impresa. Aggiungete impossibile.

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