LA REPUBBLICA Effetto Garcia, dalle parole ai gol

Garcia
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(E.Sisti) – La scena che più avvicina il Bayern allo Stadio Olimpico e riporta la Roma a un punto dalla Juventus la imposta concettualmente Francesco Totti e la mette su carta Adem Ljajic con una macchina da scrivere fabbricata in Olanda. La Roma è già in vantaggio. Il lancio di Totti è un arcobaleno di quaranta metri. Certi palloni magici perdono peso improvvisamente e per motivi oscuri, ma così cari a chi ama il grande calcio, precipitano proprio sul piede del giocatore cercato. Ljajic aggiunge pepe al sale del compagno. Entra in area, Zukanovic vorrebbe spingerlo verso la linea di fondo, Ljajic accetta l’invito ma invece di finire fuori campo esplode un destro devastante che taglia in due la porta finendoci dentro. A piedi invertiti, un gol alla Robben. Si sente profumo di Champions, di Allianz Arena, di Olanda e si risente un odore di bianconero. La Roma risponde al 6-0 con cui la squadra di Guardiola ha spento ieri tutte le luci della città di Brema, umiliando il Werder e facendolo uscire dal campo al buio (sempre che qualcuno non si sia portato dietro una candela).

Gioca mezzora e poi si mette alla finestra a guardare la luna, aspettando martedì e godendosi i due punti rosicchiati alla Juve. È tutto pronto per la grande sfida. La Roma ha giocatori in condizioni psico-fisiche invidiabili, compresi quelli appena tornati disponibili. La Juventus non ha scalfito la potenza del gruppo. Nemmeno un graffio. La delusione, gli strascichi e la rabbia potrebbero avere addirittura rinforzato l’autorevolezza dei “lupi”, tonificato l’ambiente e confortato le sensazioni del “capobranco” Garcia. I più appariscenti e i meno sbandierati rappresentano un motore unico. Mescolando schemi e sudore, concretizzano sempre qualcosa di tangibile. La loro collettiva premessa teorica (giocare molto bene) produce spesso una grande bellezza. E’ come quando l’idea astratta del pittore prende colore sulla tavolozza e diventa quadro. Non ci sono gesti inutili, sprechi, rare le palle senza motivo. Ieri la Roma ha esibito trenta minuti di calcio semplice e stellare, il suo calcio. Agevolata dal tenerume del Chievo, ha offerto squarci di cielo azzuro, ha disegnato lineari, eleganti dialoghi noti come “possesso palla, ora stretti ora leggermente più larghi, e sempre con una verticalizzazione finale. Magnifica la calibrata veste di certe esecuzioni collettive. Quando i giocatori parlano una sola lingua, i reparti riescono a confondersi l’uno con l’altro e ciò inevitabilmente toglie importanza ai ruoli fissi, soprattutto a quello del centravanti classico (proprio come accade al Bayern e alla Germania di Löw). Il rigore generoso segnato da Totti e fischiato ironicamente dalla Sud (che poi ha inutilmente richiamato in causa Pessotto) metteva il Chievo di fronte a un muro tecnico e al tempo stesso a una comoda strada a tre corsie: che però conduceva dritta alle docce. Non c’è mai stata partita. Sotto di tre gol i veneti non hanno prodotto reazioni, né calcistiche né termiche (la temperatura della loro partita ha congelato il termometro). Pur non spingendo, la Roma avrebbe potuto segnare almeno il doppio (splendido il tiro al volo di Totti al 11’ del secondo tempo). S’è visto in campo Uçan nel finale. La sensazione è che sia un valore da giocarsi più spesso. Anche più di Paredes forse.

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