IL FATTO QUOTIDIANO La rabbia da Scampia non marcia su Roma

Gli scontri di sabato a Tor di Quinto
Gli scontri di sabato a Tor di Quinto

(E.Fierro) – La morte di Ciro annunciata dal tam tam virtuale, le smentite e la conferma che le condizioni del ragazzo di Scampia ferito a morte in un giorno nerissimo di maggio, sono gravissime. Solo un miracolo, “ma di quelli forti, grossi, cu sette palle, lo può salvare”, dice suo zio Enzo, portavoce dell’angoscia di questa famiglia napoletana, per il suo passato da sindacalista della Fiom. Ciro, in nome suo c’è chi a Napoli da mesi soffia sul fuoco. Come se non fosse bastato il sangue versato, la vita di un ragazzo di 31 anni spezzata, il dolore di una famiglia da 50 giorni appesa al filo sempre più esile di speranze altalenanti. Ciro migliora, Ciro ha sorriso a sua madre, Ciro muove gli occhi, Ciro lo hanno operato. Notizie che durante queste settimane sono rimbalzate sotto il Vesuvio accendendo gli animi più che le speranze. La famiglia è stata netta: nessuna violenza, neppure una parola fuori posto in nome di Ciro.

EPPURE IN QUESTO lunghissimo tempo, a Napoli, insieme alle scritte e agli striscioni che inneggiavano al ragazzo di Scampia, si sono viste cose bruttissime. Partorite dal ventre malato di quella tifoseria ultrà organizzata che da tempo ha superato tutti i confini della legge. Manichini vestiti da calciatori della Roma impiccati nei vicoli dei Quartieri nei Decumani. Anche a Roma, gli strati più profondi del tifo, quelli che sotto il Cupolone filtrano con le destre più estreme e oscure, non sono stati da meno. “Daniele a noi ce l’ha imparato, sparare a Ciro non è reato”. È la scritta comparsa sul muro di un quartiere, prontamente segnalata alla polizia da un gruppo di cittadini schifati da parole così infami. Per fortuna della pietà e della decenza è stata cancellata. La tensione è stata alta per tutto il pomeriggio. Arrivano gli ultrà da Napoli per devastare Roma, la voce che si è rincorsa fino a sera. E sono scattati i controlli nei punti caldi. Sui caselli dell’autostrada, nella stazione di Napoli Centrale, a Tor di Quinto, dove Daniele De Santis, l’uomo accusato di aver sparato a Ciro, aveva il suo chiosco. Daniele, il capo ultrà, l’estremista di destra che ama farsi fotografare dietro effigi nazifasciste, è ricoverato al Policlinico Umberto I, piantonato e guardato a vista. Si sta pensando di trasferirlo in una struttura carceraria dotata di reparto ospedaliero fuori Roma. Tensione altissima, ma i tifosi delle varie anime ultrà napoletane fanno sapere di non voler marciare su Roma. Sembra prevalere la pietà sulla voglia di vendetta. A Scampia, il quartiere dove Ciro Esposito è nato e dove vive con la sua famiglia guadagnandosi il pane in un piccolo lavaggio di auto, avevano organizzato un maxi–schermo nella Villa Comunale per vedere la partita della Nazionale.

ALLA FINE, Comune e Municipalità hanno deciso di annullare tutto. Troppo dolore per inneggiare in piazza. Qualcuno a Roma, davanti ad un altro maxi–schermo montato in piazza, dice che forse sarebbe bello se i giocatori in Brasile ricordassero Ciro, il ragazzo di Scampia tifoso del suo Napoli. Speranza vana, perché il gioco del pallone ormai ha poco tempo e neppure un minuto per la pietà. Ciro è nel suo letto. Intubato, attaccato al respiratore, mamma e papà lo vedono da un vetro e aspettano il miracolo. Ciro non ha visto la partita e la sconfitta della Nazionale. Il 3 maggio, quando gli spararono in nome di un tifo avvelenato, fu il gioco del pallone a perdere per sempre.

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