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CORRIERE DELLA SERA Steward allo stadio: “Siamo inermi. Rischiamo la vita per quaranta euro”

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 (G.Piacentini)«Allo stadio rischiamo la vita per meno di 40 euro. Chi ce lo fa fare? La passione per la squadra del cuore».Tra le riflessioni da fare obbligatoriamente il giorno dopo la finale di Coppa Italia, c’è anche quella sul ruolo degli steward. La loro impotenza davanti al lancio di bombe carta e all’invasione di campo finale da parte dei tifosi del Napoli, ha messo a nudo le lacune del servizio d’ordine. Paolo (il nome è di fantasia perché le società che gestiscono il servizio all’interno degli stadi fanno firmare degli accordi di riservatezza ), è tifoso della Roma e presta servizio all’Olimpico da cinque anni. Sabato sera non era allo stadio, ma c’erano molti suoi colleghi.

Che cosa si prova in situazioni come quelle che si sono verificate durante la Coppa Italia?
«Tanta paura. Sono situazioni che non andrebbero mai vissute e che per fortuna non abbiamo vissuto spesso, ma ogni tanto capitano. E noi non possiamo fare niente».

Perché?

«Perché non abbiamo gli strumenti, non siamo attrezzati come le forze dell’ordine. Eppure abbiamo gli stessi obblighi di intervenire perché dentro lo stadio siamo equiparati a pubblici ufficiali. Se non interveniamo è omissione di soccorso, siamo perseguibili penalmente, ci sono le telecamere che ci riprendono durante le partite e tutto questo ci viene ripetuto ogni volta che facciamo i briefing. Ma vuole sapere una cosa?».

Prego.

«Noi non possiamo fermare due tifosi che litigano perché non possiamo toccarli. Possiamo provare a convincerli a seguirci, altrimenti dobbiamo rivolgerci ad un pubblico ufficiale, e nello stadio ci sono solo agenti in borghese».

Cosa vi spinge a farlo?

«Certamente non i soldi. Qui a Roma veniamo pagati 37,50 euro ad evento. Dobbiamo stare allo stadio quattro ore prima dell’inizio della partita e ce ne andiamo circa due ore dopo. Da un paio di anni ci pagano anche i contributi Inps, ma non tutti lo fanno. In altre realtà si guadagna di più, ma rispetto all’Europa siamo indietro: fuori dall’Italia il nostro è un lavoro riconosciuto, qui non c’è la stessa preparazione, non è una professione».

Ne vale la pena?

«Se penso a serate come quella di sabato la risposta è no. Poi però c’è la passione per la squadra del cuore. Ed è quella che “frega” me e il 99% dei miei colleghi».

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