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IL FATTO QUOTIDIANO La prima breccia del calcio arcobaleno

Hitzlsperger

(M. Pagani) – Marcello Lippi disse che non esistevano. Felipe Scolari ammise che li avrebbe volentieri epurati. Nessun “frocio” nel calcio. Non c’è posto. La novità non è rilevantissima e così non stupisce che anche una bella testa come Daniele Dessena, si sia trovato nel mezzo di una manciata di “fatti i cazzi tuoi” per il solo aver allacciato sugli scarpini un paio di stringhe arcobaleno immaginate come deterrente alla demenza dalla fondazione Cannavò e utili a legare le discriminazioni al palo dei loro limiti. Per certi tifosi (a leggere la pagina Facebook, un’infima minoranza, nella realtà non è dato sapere) il centrocampista avrebbe dovuto evitare. Le giustificazioni sventolate, dalla precaria classifica dei recenti orfani sardi dell’esule inglese Cellino alla dittatura della lobby gay, in un impasto di complotti, delirio, protezionismo anni 50 e pura coglioneria, fa l’effetto di sempre. Salvatore Soviero, portiere della Reggina, incline alle risse e alle provocazioni, passò il guanto sull’orecchio e diede del “ricchione” a Del Piero.

Il neo ambasciatore cinese Alino Diamanti, pur di non impantanarsi nelle risaie della via di mezzo con Borriello, preferì planare ripetutamente sugli ortaggi: “Finocchio di merda”. Lo ripeté tre volte. Poi si scusò: “Non ridirei mai quello che ho detto a Marco che è un amico. Ero in trance agonistica. Sono cose che non dovrebbero succedere, lo so, ma tutto finisce in campo”. Il limite ipocrita, il confine della solitudine di un universo che somiglia a un passo di De Sade, ma da sempre nega la natura eterogenea dell’amore. Così tutto bene per le mogli passate nel letto del compagno di squadra, i centri massaggi per pallonari con il loro peculiare tariffario, gli arbitri blandìti ora con un orologio, ora con lascive formule da 007 di retroguardia (la coperta supplementare in albergo e i conseguenti, indotti cappotti in campo ai danni della società meno generosa nell’ac – compagnare la vigilia del direttore di gara) le allegre ammucchiate di settore tra una striscia, un’esagerazione e un drink.

Bene per tutto, ma non per chi sospira fuori dalle consuetudini. Tra un negazionismo e uno scatto isterico dei custodi del sacrario, il terzo tempo del libero arbitrio non vede abbracci né conciliazioni. All’etero Dessena, che ha reagito al disprezzo di qualcuno rilanciando: “Sono solo ignoranti” e ottenendo il plauso di Moscardelli del Bologna, Seedorf e di un mazzo di colleghi pronti al politicamente corretto, toccherà qualche ironia ulteriore negli stadi. L’obiet – tivo sarebbe superare i generi, ma in uno stagno in cui per decenni le leggende metropolitane si sono date la staffetta, il traguardo è ancora una nebulosa all’orizzonte.

Nei decenni, da Diego Fuser nel ruolo di indignato scopritore, delatore e giustiziere dell’amore rubato tra due compagni in uno spogliatoio di Formello, alle stanze Mundial di España 82 in cui secondo i gazzettieriRoss i e Cabrini si sorridevano di una gioia – si disse – non solo amicale, verità, segreti e bugie hanno avuto il proscenio per far parlare il microcosmo senza che fuori arrivassero fastidiosi echi. Per voce del capitano Zoff, prima di festeggiare a Madrid in un luglio troppo breve da dimenticare, la truppa di Bearzot “tutelò” Pablito e il bell’Antonio con il più tradizionale dei silenzi stampa.

Prima, molto prima delle confessioni pubbliche di Thomas Hitzlsperger sulle sue predilezioni maschili e della morte indotta di Justine Fashanu, il maschio alfa della sincerità in uno scenario di omissioni costanti. Uno a cui un incoraggiamento sarebbe servito. Denunciò la propria condizione nel 1990. Venne ripudiato persino dal fratello. Si impiccò 8 anni più tardi, inseguito da accuse spaventose, sensi di colpa, incomprensioni. Cori, striscioni e banane in campo. Ogni sabato, da quando le voci si erano trasformate in certezza: “Non voglio dare altri motivi di imbarazzo ai miei amici e alla mia famiglia. Spero che il Gesù che amo mi accolga: troverò la pace, infine”. Il suo allenatore, Brian Clough , con Fashanu fu diretto: “Dove vai se vuoi una pagnotta?”. “Da un fornaio”. “Dove vai se vuoi un cosciotto d’agnello?” “Da un macellaio”. “Allora perché continui ad andare in quei fottuti locali per froci?”. Nessuna qualità agli eroi per caso, nessun aspetto ludico, niente della leggerezza arbasiniana: “Ossigenarsi a Taranto/è stato il primo errore/l’ho fatto per amore/di un incrociatore”. Ma liturgie consolidate. Volti girati. Logiche da branco. L’allenatore si sedeva e iniziava a parlare. Curiale. “Il nostro attaccante si è sposato. Ora acquisterà la tranquillità che solo una famiglia tradizionale può offrire”. Erano gli anni 60. Già allora, dei calciatori si parlava come bestie da sedare. Di impulsi da incanalare. Di gabbie da erigere di fronte al desiderio di chi non aveva nulla e si era ritrovato a possedere tutto. Oggi che in mano ci si ritrova il resto di niente, bastano un paio di lacci di un ragazzo di 25 anni e una madeleine proustiana più folgorante di una mano de dìos in terra messicana: “Non c’erano anormali quando l’omosessualità era la norma”.

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