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CORRIERE DELLA SERA La seconda squadra, ultima moda italiana. Tommasi: “Solo per business”

D. Toomasi

(P. Tomaselli) – Ma dove vai se la seconda squadra non ce l’hai? All’estero, se possibile. O in provincia, con gli occhiali scuri: si fa ma non si dice, perché da noi le regole federali impediscono di avere la proprietà di due squadre professionistiche. E la battaglia dell’Assocalciatori, per riportare il nostro pallone in linea con Paesi come Spagna e Inghilterra, sembra senza speranza. Nella migliore delle ipotesi viene snaturata: comprando società oltreconfine, come nei giorni scorsi ha fatto Massimo Cellino con il Leeds United.

Il presidente del Cagliari sta cercando di vendere la sua creatura e potrebbe nella prossime ore rimanere solo con una la squadra inglese, perché è il business il motore della sua iniziativa. Non certo la crescita dei giovani e l’interscambio tecnico con la casa madre, anche a stagione in corso: «Queste operazioni non hanno nulla a che vedere con il modello di seconda squadra che proponiamo noi — dice Damiano Tommasi, presidente dell’Assocalciatori —, ma sono fatte per spostare giocatori o per sistemare un bilancio. La seconda squadra alla spagnola ha lanciato tecnici come Guardiola o Benitez, serve a formare allenatori e giocatori, dandogli tempo per crescere e occasioni per dimostrare il proprio valore: un calciatore può scendere in campo con la squadra B e poi, se serve, la settimana dopo può tornare utile alla prima squadra. Ma in Italia con tre Leghe professionistiche e tre presidenti diversi e tre politiche sui giovani, è molto difficile mettersi d’accordo».

La Lega Pro, nella felice definizione del suo presidente Mario Macalli, è «il campionato dei campanili». Ma ciò non toglie che nella piazza del villaggio si muovano diverse società maggiori, per creare sinergie (magari girando giocatori per opzionare qualche giovane talento) e collaborazioni più o meno ufficiali. Era interessato a farlo il Napoli di De Laurentiis. Lo fa il Parma, i cui rapporti con Gubbio e Savona sono stretti. Ha cercato di farlo la Fiorentina a fine gennaio con il Prato, scatenando proprio l’ira del campanile accanto. Lo aveva fatto, con partecipazione societaria, l’Inter a La Spezia. Lo fa, unico in Italia, Claudio Lotito, che è proprietario di Lazio e Salernitana, acquistata quando era finita tra i Dilettanti e portata in Lega Pro. Un percorso, quello che parte dalla D, che oggi si può fare senza deroghe, ma tortuoso e anche in questo caso lontano dalla logica delle seconde squadre alla spagnola.

Allora tanto vale cercare di fare affari oltre confine, coltivando i vivai locali, nella speranza di arrivare prima se ci sono prospetti interessanti. Il Parma lo fa a Nova Gorica (colonia italiana, allenatore Apolloni), la Roma (dopo aver fatto un sondaggio col Cadice dove lavora Gaucci junior) sta definendo l’accordo in Serbia con il Cucaricki, l’Udinese ha il suo puntello al Koper (dove allena un altro italiano, Rodolfo Vanoli) e altri interessi in Belgio. Dal Friuli parte la vera via italiana alla seconda squadra: una diversificazione del business che i Pozzo hanno fatto con il Watford (serie B inglese) e con il Granada, preso in terza serie e riportato in due anni nella Liga. Qui c’è un’unica proprietà, c’è interscambio dei giocatori, ma ci sono anche gli stadi pieni e i diritti tv: il Watford ha perso la Premier League solo ai playoff e in caso di promozione sarebbe diventato il principale affare dei Pozzo. Nel campionato in corso il Leeds in classifica ha cinque punti in più della squadra allenata prima da Zola e ora da Sannino: se il club di Cellino venisse promosso, la Sardegna, coi suoi stadi fantasma, diventerebbe davvero solo un posto dove tornare in vacanza. Per esibire la seconda squadra,

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