IL FATTO QUOTIDIANO Il mondo visto da dietro una porta

Stadio Giuseppe Meazza

(P.Cardone/T.Rodano/D.Milosa/A.Giambartolomei) Si sopporta tutto, le violenze, il razzismo. Oppure si condanna in blocco, con sufficienza e snobismo. Tifosi o detrattori non conoscono mezze misure. Eppure il calcio è proprio un concentrato di contraddizioni. Questa è la sua grandezza e il suo male. E la curva è il simbolo, del pallone e di tutte le nostre passioni. Un luogo di cui tutti parliamo, ma che pochi conoscono davvero. Ecco allora il signor Rossi superare i tornelli per capire davvero cosa succede ai margini del campo. Perché il vero spettacolo – soprattutto in questi anni di crisi del gioco – è soprattutto laggiù: alle spalle della porta.

LAZIO, LA POLITICA E’ SEMPRE PRESENTE 

“Il tramonto è rosso, l’Alba è dorata”. Lo striscione compare nelle prime file della Curva Nord all’intervallo. Ci sono i nomi di Yorgos e Manolis, i due “camerati” del partito nazista greco uccisi ad Atene il primo novembre. Hai voglia a dire che il settore storico degli ultrà della Lazio è cambiato e la “politica” è finita fuori dalla gradinata. Non è bastata la dissoluzione degli Irriducibili, il gruppo ultrà storicamente e orgogliosamente fascista e razzista, sciolto lo scorso anno. Gli stessi Irriducibili che nel 1992 accolsero l’olandese Aaron Winter, appena acquistato dall’Ajax, tappezzando il centro sportivo della Lazio di scritte che gli rinfacciavano l’inaccettabile provocazione di essere al contempo “negro” ed “ebreo”. Gli stessi Irriducibili del capo ultrà Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, arrestato da latitante per traffico di droga, mentre guardava una partita europea della sua Lazio. Anche senza di loro lo stadio e l’area che lo circonda restano una zona franca. Bancarelle e venditori abusivi sono una fauna storica, intoccabile. I bagarini sono diminuiti, ma non li ha eliminati nemmeno l’introduzione del biglietto nominale. Anche perché il controllo dei documenti di chi si avvicina ai tornelli è una barzelletta e alla fine, con un po’ di lavoro di persuasione sugli steward, può entrare praticamente chiunque, in qualsiasi settore. Certo, la curva non è solo questo. Sono anche migliaia di persone che riempiono la gradinata e la colorano con orgoglio fino al fischio finale, quando parte la contestazione. Un settore intero che tira fuori le sciarpe e canta l’inno della Lazio nel momento peggiore, con i cugini primi in classifica e la propria squadra che affonda contro il modesto Genoa. La Curva Nord non sono solo le persone che tirano su col naso negli angoli nascosti delle latrine dell’Olimpico (e non certo per goderne della fragranza). È anche una gradinata piena di ragazzi e bambini piccoli. Una avrà al massimo due anni e un ciuffetto di capelli tenuti su da un minuscolo elastico blu. Osserva la curva dalle spalle del papà. Le toccherà ascoltare, in meno di due ore, gli ululati al genoano di colore Cofie e soprattutto all’ex laziale Matuzalem (che non è “negro”, ma è colpevole d’“infamia”). Le toccherà assistere a boschi di braccia tese, mentre parte un canto nostalgico: “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”. Le toccherà sentire un coro creativo che tiene insieme Mario Balotelli e “i suoi fratelli”, che “non giocano a pallone”, ma “sudano in un campo di cotone”. E, poiché alla fantasia dell’ultras non c’è limite, ascolterà anche una dedica speciale al presidente della Lazio: “Mi diverto solo se muore Lotito. Dove muore non m’importa, lo vogliamo a Prima Porta”. Una minoranza, si dirà. La solita minoranza.

JUVENTUS IL MURO DI TORINO

Basta una parete di plexiglass a dividere due maniere di vivere lo Juventus Stadium. È mercoledì sera, si gioca la partita tra la squadra torinese e il Catania, l’ultima in casa prima dell’incontro col Napoli. La parete di plexiglass divide due stili accomunati solo dalla fede nei colori bianconeri. Da una parte, nella tribuna ovest, sembra proprio lo stadio “con le vetrine e i negozietti, solo famiglie e chierichetti”, come cantano i tifosi del Torino. I seggiolini di plastica sono ancora intonsi, senza una scritta. Le pareti sono pulite, le file ordinate. Stanno tutti composti a godersi la goleada juventina. Ci si alza in piedi solo nei momenti del gol sennò arrivano subito gli steward che tutelano il diritto di chi ha pagato quaranta euro (come minimo) per vedere l’incontro. Gli addetti alla sicurezza intervengono anche quando qualcuno si accende una sigaretta: bastano pochi tiri, una nuvoletta di fumo che si leva, e lo steward con la pettorina gialla invita a spegnere o a uscire. Invece dall’altra parte della barriera di plexiglass che divide la tribuna ovest dalla curva sud, c’è un gruppo di ragazzi in piedi che fuma. Per loro valgono regole diverse. Da quella parte è tutto un levarsi di nuvolette di fumo, di gente in piedi accalcata contro il parapetto, a cavalcioni della balaustra. È la curva sud, il regno degli ultras juventini, con gruppi politicamente di destra. Sopra, al secondo livello, è il “territorio” dei Drughi, gruppo tornato allo stadio nel 2005 dopo quasi dieci anni di assenza. Sotto invece, proprio dietro la porta, sono accalcati i rivali dei Drughi, gli ultras di Tradizione insieme a quelli Antichi valori, Fighte rs e Curva Sud Scirea. Cinque ragazzi in maglietta nera stanno in bilico su un muretto per coordinare i cori, controllati a distanza da un numero variabile di addetti alla sicurezza, tra i venti e i trenta. Ma in questa serata è tutto tranquillo e i cori sono contenuti. Suona strano se si pensa che questi gruppi, i più forti della curva, all’inizio di ottobre si erano uniti alla protesta degli ultras di Milan e Inter contro le sanzioni previste per i “cori espressivi di discriminazione territoriale”. A un ultras basta una frase per spiegare il motivo di questo comportamento: “La prossima partita in casa è contro il Napoli”. E quindi? “Se facciamo questi cori oggi rischiamo che la curva venga chiusa”. Ah, ecco. Dopo i canti contro i napoletani del 20 ottobre ne sono stati fatti altri domenica scorsa contro il Genoa, società gemellata a quella partenopea. Il giorno dopo il giudice sportivo ha deciso di sanzionare la società bianconera per canti come “Lavali con il fuoco, Vesuvio lavali con il fuoco”, interrotti solo dopo l’annuncio antiviolenza dello stadio: era la prima sanzione e quindi la pena minima, la chiusura della curva sud per una partita, è stata sospesa a condizione che i cori non vengano ripetuti. Mercoledì quindi nessun riferimento alla lava del Vesuvio, né a quella dell’Etna contro gli avversari del Catania. Per comprare un biglietto non c’è problema: i bagarini vendono la curva per cifre tra i 150 e i 200 euro.

ATALANTA, BOTTE E BENEFICENZA 

Alla partita mancano cinque ore. Le strade intorno allo stadio Azzurri d’Italia sono deserte. Eppure Anna è già lì, immobile davanti allo sportello-accrediti. Ombrello, maglia e cuore neroblu. Non alta, non magra, 30 anni o poco più, occhiali “a girella”. Parla da sola: “Forza Dea, forza Dea”. Non è training autogeno. A duecento metri, seduto ai tavolini del barstadio, Luca legge la Gazzetta dello Sport. Pingue, sui vent’anni, guarda in cagnesco i passanti e ripete: “Col cuore, col cuore”. Sulle pareti foto e ricordi sbiaditi dell’Atalanta che fu. Anna e Luca sono nomi di fantasia, ma loro esistono davvero e accolgono chiunque capiti nella città orobica per Atalanta- Inter, anticipo della decima giornata di Serie A. É un derby: 50 chilometri dividono le città, anni luce le due tifoserie. La curva di casa, poi, è considerata una delle più calde d’Italia (93 persone sotto inchiesta per associazione a delinquere) e rappresenta una voce molto ascoltata negli ambienti ultras. Il cielo è plumbeo. All’ingresso della Curva Pisani un cartello recita: “Vietato introdurre ombrelli e passeggini”. Per chi va in tribuna coperta il problema non si pone. Per i curvaioli neanche: la pioggia fa parte del rito. Ovunque scritte inneggianti la fede ultras, l’odio per la Digos, “Acab” in tutte le salse. Calma apparente. Poi all’imbocco della strada che conduce alla tribuna fa capolino un bus scuro. Anna lo vede e urla: “Ecco i nostri campioni, forza Dea!”. Il pullman, però, è quello dell’Inter. Anna, repentina, muta l’incitamento in invettiva: “Merdeee merdeee!”. Neanche dieci minuti ed è il turno del bus orobico. Questa volta Anna non sbaglia. Il fischio d’inizio si avvicina, dei sostenitori dell’Inter nessuna traccia: il loro arrivo a Bergamo è stato salutato da una sassaiola al casello. Vetri infranti, nessun ferito. Una volta allo stadio, i fans della Beneamata cercano di raggiungere i tifosi di casa per vendicarsi. Miccia spenta dai celerini prima di far deflagrare la violenza. Che c’è stata, ma lontano dall’ex Comunale. Dove, invece, si pensa ad altro. “Qui che ha?”. “Sigarette, fiammiferi e chiavi di casa”. “Ok, può andare”. Dopo i tornelli, la perquisizione in curva è una pratica soft: solo la certezza che non venga introdotto “materiale atto a offendere”. Sotto gli spalti della Pisani è tutto un lavorìo di schiene piegate: la preparazione degli striscioni deve essere certosina. Alla destra del chioschetto delle bibite (niente alcolici), due ragazze distribuiscono la fanzine. In cambio di “un contributo per ciò che facciamo”. Cosa fanno? Beneficenza e iniziative varie. L’ultima è aiutare il piccolo Nicola a rivendicare il diritto alla cura con il metodo Stamina. Di sassi e risse non parla nessuno. Eppure ci sono, come le buone azioni. In men che non si dica la curva è piena zeppa. Sul campo le squadre hanno quasi ultimato il riscaldamento quando una trentina di ultras, con movimenti provati e riprovati, adagia alla base della curva un drappo lungo oltre cento metri. Conto alla rovescia, primi cori: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do” ripe – tuto a squarciagola. I 22 entrano in campo, gli altoparlanti sparano turbofolk. Tutti in piedi. Venti secondi e la curva non c’è più: al suo posto un immenso telo nerazzurro ricopre l’intero settore. Sotto è festa. Salti, mani al cielo, urla, fumogeni. L’odore di spinello avvolge tutto. Una ragazza al fidanzato: “Piove, mi bagno. Andiamo via?”. E lui, come se non ci fosse domani: “In-te-ris-ta ca-ne bas-tar-do”. Evidentemente era un no. Nell’intervallo è corsa al bar, alle canne e ai bagni. Quello che la vulgata definisce come il luogo più pericoloso dello stadio, a Bergamo è una semplice latrina: serve a ciò che deve servire, altro che ricettacolo di criminali e loschi traffici. Dopo quindici minuti la festa riprende. L’Inter attacca, la curva orobica pure. Con uno striscione non oxfordiano: “Discri – minarvi deve essere la normalità. Interista figlio bastardo di ogni città”. Il riferimento è alla vicenda delle curve chiuse (e poi riaperte) per gli insulti ai napoletani. La chiamano “discrimina – zione territoriale”, ma a Bergamo (roccaforte leghista) è più rivalità calcistica che altro. Certo, nella fauna assortita della curva i “terun” e i “neghèr” urlati contro gli avversari non si contano. Ma il senso è più quello del “pirla” alla milanese e del “trimone” alla barese: un insulto, quasi un intercalare, dettato dal timore dell’avversario. Il razzismo becero e politicizzato è un’altra cosa. L’arbitro fischia la fine: uno pari. E dopo novantacinque minuti di salti, cori e fumo passivo, si ha la sensazione di aver partecipato ad una festa, non alla sagra dell’odio.

A FASANO, E’ DERBY DI PAESE 

Non ci sono tornelli, non ci sono controlli, non ci sono curve e non c’è neanche il campo con l’erbetta. Lo stadio è tutto esaurito: 700 persone, tifosi di casa e ospiti (in larga maggioranza) tutti insieme appassionatamente nell’unica tribuna dell’impianto. In scena il derby di Prima Categoria pugliese tra Pezze di Greco e Fasano. La provincia è quella di Brindisi, Pezze di Greco è la frazione di Fasano. Non era mai accaduto prima che i due club si affrontassero in campionato. Gli ospiti, dopo anni in Serie C, sono sprofondati negli inferi del dilettantismo. La passione dei tifosi, però, è rimasta intatta. La trasferta, per loro, è una gita fuori porta: appena cinque i chilometri da percorrere con ogni mezzo possibile, biciclette comprese. Calcio pane e salame, insomma. Lontano dai riflettori, lontano dalla ribalta. Ma vicino, molto vicino alla gente. Perché a questi livelli non ci sono le tv e se si vuol seguire la propria squadra la soluzione è solo una: andare allo stadio. E i tifosi ci sono andati in massa. Servizio d’ordine minimo, di pericolo incidenti neanche l’ombra. Eppure c’è qualcuno che non dimenticherà l’esperienza: l’arbitro, forse non abituato a fischiare di fronte a tanta gente, va nel pallone, espelle tre giocatori del Fasano e per i frazionali la vittoria contro la città è una storia da raccontare ai nipotini. Capita, però, che ai tifosi ospiti la sconfitta non vada giù. La giacchetta nera diventa il bersaglio numero uno. Spogliatoio circondato: il signor Salanitro di Bari lascerà lo stadio all’imbrunire, senza conseguenze, ma scortato dalle forze dell’ordine e dopo due ore dal triplice fischio. Tra goliardia e rabbia di campanile, succede anche questo nel calcio dell’ultraperiferia.

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