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IL ROMANISTA E annamo

As Roma

(T.Cagnucci) Bellezza e grugniti. Ma più che guardarla senti che bel rumore che fa questa Roma.Vince tra oplà alla francese, palombelle slave e pregiati tessuti olandesi, ma fa sgrunt e sgomma, riga il parquet e graffia la lavagna.

La bellezza di questo 3-0 è questo brusio di fondo, un solaio su cui costruire ancora tutta una stagione. Piccoli germogli, come brusii che suggeriscono alle orecchie e al cuore le parole giuste che, giustamente, abbiamo ancora paura di dire.
Maicon è Django, ara le praterie per liberare tutto il Brasile che ha dentro, sbuffa il Mondiale dalle narici, s’accartoccia la fascia in tasca quasi facendo finta di niente e sorride. Pura sublime letteratura coatta. Prepotenza di grazia. Un Fonzie da Copacabana per far capire a tutti che sono tornati i suoi Happy Days. Strootman è l’olandese pulito, col sinistro che è un girasole, ma quasi col grugno di Ribery, senza cicatrice, ma con le labbrone di chi il gusto se lo prende tutto e subito, con quello sguardo da bava alla bocca che ti sporca la linea di porta per salvartela: quasi un omaggio alla maglia numero 6 della Roma che all’Olimpico non si vedeva da tremilasettecentocinquanta giorni. È più importante voler difendere, spazzare, salvare un 3-0 stra-acquisito a poco dalla fine che qualsiasi altra cosa. È questo che insegna Kevin Space. Come l’urlo nello spazio di De Sanctis Morgan, il Munch ritrovato (prima in porta avevamo soltanto uno splendido quadro) che non ha preso quasi un tiro e pure al minuto 35 e 36 secondi sbraita e si incazza per come effettuare una rimessa dal fondo, così come aveva fatto in settimana perché un suo compagno aveva messo male le scarpe nello spogliatoio. Che sia leggenda o realtà non ce ne frega niente, ci interessano quelle urla. Quelle che ogni romanista ha in gola da almeno cento giorni.

Eccola la bellezza di questo tre a zero comunque soltanto bello. Eccola la bellezza più bella di quell’arcobaleno disegnato da un uomo che ci sarà un motivo per cui lo chiamano Mira (ha acceso un faro col piede, ha inventato il cinema in quella traiettoria), più bella perfino del mare (e ieri dai piedi di De Rossi ci hai visto nascere e morire in continuazione albe e tramonti in una partita infinita come il giorno del Piccolo Principe); più bella persino del fulmine scagliato da Ljajic che segna, lui Adamo, primo uomo, all’esordio impedendo a tutti i tifosi di cadere nella tentazione di Lamela. Il Paradiso lo abbiamo perduto, ci vogliamo rientrare. Ci dobbiamo rientrare. Ecco quello che deve raccontare questo 3-0, ecco quello che vale. Che tutto questo sia un buon inizio, che tutto questo sia appena e soltanto uno splendido inizio. Le costanti tra Livorno e ieri ce le puoi già trovare: un primo tempo giochicchiato e non giocato male, zero a zero che diventa una vittoria nella ripresa con un cambio (a Livorno Gervinho, ieri Ljajic), nessun gol preso che è quasi un inedito, cinque fatti senza attaccanti e la sensazione di essere un qualcosa, un’orchestra, un gruppo, una squadra. Guidata da un allenatore che ha gli occhi da Alain Delon, il naso da pugile, il profilo di van Basten, il fascino di uno chansonnier con petti e giacche Anni 70, insomma tutto. Che tutto questo sia un inizio, soltanto un inizio, che si continui col cuore pieno e col sorriso, ma senza alcuna superficialità, e senza mai dimenticare niente. Cento giorni dopo il derby, siamo tornati qui e ieri hanno segnato tutti quelli che non c’erano quel giorno. Come un monito. Come un segnale da ascoltare nell’insopportabile silenzio della Curva Sud. Senti se è un bel rumore…

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