IL SALVAGENTE Di Paolo Marcacci

L’inno che accompagna in campo la Roma è il più bello del mondo, tra quelli dedicati a una squadra di calcio.
Il giudizio di merito in questo caso ha la solennità di una sentenza, perché se è vero che tutto è opinabile, è altrettanto certo che ci sono criteri di oggettività che non possono essere trascurati: cioè, nessuno può dire che la Mole antonelliana, con tutto il rispetto, sia più bella e imponente della Basilica di San Pietro.
Tutto questo, per dire che non sempre è solo questione di gusti, ma che esistono valori assoluti: mentre gli altri cantano Milan-Milan o Juuuuuve, noi abbiamo e spero avremo una poesia che sviluppa un crescendo di emozioni per raccontare ciò che lega un pubblico alla sua squadra.
Esistono ancora quel tipo di pubblico e quell’idea della Roma che per generazioni sono stati un connubio indissolubile, ammirato ed imitato in Italia e all’estero? E’ esattamente questo il dubbio, più che legittimo, attraverso il quale Antonello Venditti ha espresso una sua forma di malessere, di distacco, ognuno trovi il termine che ritiene più idoneo.
Poi si può essere più o meno d’accordo e, nei panni della dirigenza, prendere le decisioni che più si ritengono opportune. Quello che appare chiaro, è che dietro l’espressione di questo malessere c’è un grido d’amore da parte di Antonello Venditti e anche l’espressione di un piccolo dolore: quello di non riconoscere più la Roma per quello che era ed è sempre stata. E’ vero che i tempi cambiano, ma ciò che in qualche modo è “sacro” andrebbe sempre salvaguardato dallo scorrere del tempo. Per chi scrive, l’inno che rimbomba all’Olimpico quando la Roma fa il suo ingresso in campo, quello che lascia ammirate ogni volta anche le tifoserie ospiti, non solo è ancora sacro ma è anche un vanto della nostra storia, un elemento che contraddistingue il nostro tifo.
Ma al di là delle considerazioni che si possono fare in merito alla canzone e allo sfogo dell’autore, ciò che veramente è apparso sorprendente è stata la serie di reazioni registrate ieri in alcune radio, sui vari social-network, persino nei bar: anche questa questione ha causato divisioni; anche le parole di Venditti son servite a far ragionare i tifosi romanisti in termini di “contro” e “a favore”, anche la canzone ha funto da spartiacque tra buoni e cattivi. Questa è la notizia, a nostro parere: la pubblica opinione romanista è vittima di un così alto tasso di disgregazione interna che pure ciò che dovrebbe rimanere indiscutibile (salvo essere messa in discussione per troppo amore da chi l’ha creata) come “Roma, Roma…” serve a una serie di puntualizzazioni tra nostalgici, polemici, sostenitori a prescindere del nuovo che avanza (anche quando non avanza) e paladini delle varie “correnti” interne al tifo.
Viene il dubbio che per tornare ad essere tutti solo e semplicemente romanisti occorra arrivare a un bivio: o vincere lo scudetto o rischiare di retrocedere. Vi prego di non fare battute sulla prima ipotesi.
Post scriptum: nei panni di una dirigenza, un inno come quello della Roma e un autore-tifoso come Antonello Venditti io non solo me li terrei stretti, ma farei in modo di legarli ancora di più al club e alla sua immagine. Ma questa è un’altra storia…
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