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IL ROMANISTA Per la Roma ripassa il pendolino

Cafu

(D. Galli) – Quel ramo della Roma che volge all’America Latina, forse, potrebbe approfittarne. A dieci anni esatti dal suo Arrivederci Roma, e a un anno dal Mondiale che farà del Brasile il centro del mondo, Marcos Evangelista de Moraes, alias Cafu, non esclude un possibile ritorno. A Roma. Alla Roma. Per dare una mano alla società, se gli venisse chiesto, rappresentandola in Brasile, in Sud America, là dove la Roma è presente per storia, perché ha fatto storia, perché se dici Roma a Porto Alegre come a San Paolo ti rispondono Falcao, perché quando una volta in un’intervista romana Cafu racconta che la sua prima maglia fu la 5, subito aggiunge: «Eh lo so di chi era quaggiù…».

I grandi brasiliani. I miti. Il Divino, e vabbé. Cerezo, certo. Aldair. Zago. E Cafu. Campioni d’Italia (Toninho lo è nell’ideale tricolore di ogni romanista), immortali quindi. La gente romanista l’ha votato come miglior laterale destro di sempre. È nella Hall of Fame, è uno degli undici atleti che Roma chiamò. È il Pendolino, ragazzi. La Roma è americana, ma del Nord. Nonostante i risultati non la stiano aiutando, è innegabile che il club abbia acquisito visibilità, specie nella East Coast: la cordata di Pallotta, gli accordi con Disney e Nike, la tournée estiva, il ritiro invernale a Orlando. Adesso Kansas City. La Roma americana del Nord si sta intrufolando in un mercato ricco, ma ce ne potrebbe stare benissimo anche un’altra, di Roma. L’americana del Sud. La società – e questo lo sanno in pochi – anni fa avviò un progetto tuttora valido: gli As Roma Campus Brasil. Un ottimo inizio, senza dubbio. Un primo passo cui potrebbero seguirne altri, se tra Cafu e la Roma, che si sono rivisti a Trigoria lo scorso ottobre, scoppiasse nuovamente l’amore. Poi Marcos è tornato ancora. È successo due settimane fa, toccata e fuga, due giorni tra una passeggiata al Vaticano e una cena al Beber, una churrascaria della San Paolo romana. L’ha confessato lì, assieme ai fedelissimi di una vita, a quel Vincenzo Aliotta regista nel 2000, per la Roma, di un film su Marcos e a quel Riccardo Dadi che lo segue ovunque. L’ha ammesso tra picanha, caipirinhas e birra brasileira. Cosa? Questo.

Roma gli manca. La Roma, gli manca. Se n’è andato troppo presto. Per la Roma potrebbe spendere la propria immagine di Capitano dell’ultimo Brasile campione del mondo. Laggiù è un idolo anche oggi, a 5 anni dall’addio al calcio, a 43 dalla nascita in una favela paulista, quella Jardim Irene divenuta quartier generale, una volta ricco e famoso, della Fondazione Cafu. Una onlus seria, non di cartapesta, come talvolta accade per eludere i controlli del fisco. Già. Vi sbagliate se pensate che la ragione della sua popolarità oltreoceano vada ricercata nei due Mondiali vinti, nella fascia sul campo o in quella da indossare, negli scudetti con la Roma e poi col Milan. O nel sombrero a Nedved. Nell’immaginario collettivo Cafu è un padre per migliaia di bambini. Un punto di riferimento. Un’icona. Il Governo brasiliano lo voleva apposta Ministro per lo Sport – Marcos rifiutò per un conflitto di interessi con la sua Capi Penta International Football Player, società che punta a formare dei professionisti di Eupalla – poi lo ha nominato consulente per i Mondiali del 2014. Sogni. Li alimenta la Fondazione. «Ogni bambino ha diritto di sognare e tu puoi aiutare a far sì che questi sogni si realizzino», è l’appello di Cafu ai piani alti di San Paolo. La Fondazione si occupa di tutto. Scuola, assistenza sanitaria, persino l’ingresso nel mondo del lavoro. Una famiglia per le famiglie.

Eppure, se Cafu è rimasto Cafu lo deve molto a se stesso. Alla sua capacità di donare, ma anche di restare un’immagine appetibile per gli sponsor. Recentemente ha firmato un contratto d’oro, a sei zeri per intenderci, con un partner cinese. È una potenza, e non solo in Brasile. Chi ci aveva visto giusto è Vincenzo Aliotta, ex docente di Marketing e Comunicazione alla European School of Economics. Questa è una storia che va raccontata. Incontrò per la prima volta Cafu nel ’97. In un supermercato. «Tu sei un’industria», gli fece. «Un’industria?». Il Pendolino lo osservò perplesso. Un’industria. Un marchio. Iniziò a consigliarlo, divennero amici, profondamente amici, così tanto amici che parecchi anni dopo Cafu farà da padrino di battesimo a Gaia, la figlia di Aliotta. Anzi, Gaia Margareta. Perché una delle sorelle di Marcos si chiama così. Margareta. Le toccate e fuga romane di Marcos si spiegano così, con lei, con questa bambina per la quale Cafu stravede letteralmente. I brasiliani amano i rapporti forti, veri, puri.

Prendete Cafu e Zazza. Carlo era il massaggiatore della Roma del terzo tricolore, anche se ora (purtroppo) lavora per la Lazio. È un professionista, ma è soprattutto un affetto profondo di Marcos. C’era anche lui l’altra sera al Beber sotto un cielo di maggio insolitamente freddo. «Zazza!». Cafu se l’è abbracciato come s’abbraccia un fratello. Marcos se n’è andato a Milano un giorno così, d’estate agli albori, in tempo per la leggenda, per uno scudetto atteso diciott’anni. Una volta, in quel celebre filmato del 2000, Nakata disse che Cafu «aveva due cuori». Perché correva veloce, più veloce del vento. Era un centrale di centrocampo, poi il suo primo allenatore alla Itaquaquecetuba lo provò esterno. Per necessità. Fu la sua fortuna. Il tecnico restò sbalordito e davanti ai baby compagni lo ribattezzò: «Da oggi tu sei Cafuringa». «Cafuringa? No, io sono Marcos de Moraes». «No, tu sei Cafuringa». Non l’ala per antonomasia, perché vorrebbe dire bestemmiare Garrincha, ma qualcosa di molto simile. Il bambino Marcos non sapeva chi fosse, si piazzò davanti a un videoregistratore e rimase di sasso. Era nato Cafu. Era partito il Pendolino che avrebbe acceso Roma, che nella Roma è adesso scolpito per sempre e che a Roma, ora, potrebbe anche tornare. Perché questa notte ammantata di stelle dove Roma bella gli appare, questa notte è come San Paolo. È casa sua

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