LA REPUBBLICA Bradley, modello America: “Dovete aprire gli occhi, il calcio Usa è una cosa seria”

Micheal Bradley esulta

(E. Audisio) – Un americano a Roma, anzi nella Roma, alla vigilia della partita con l’altra metà. Per lui è il primo derby made in Rome. Lo attraversa da marziano, senza storia e senza passato. Un modo cool per una cosa molto hot. Il derby è una febbre da contagio, ti brucia e ti fa credere che la temperatura è nella norma. Bradley sembra Clint: impassibile. Bradley è il primo yankee della storia, il terzo a sbarcare in Italia dopo Frigo e Lalas che arrivò a Padova 17 anni fa. Alexi era calciatore per caso, molto capellone e un po’ chitarrista. Per lui i tifosi intonavano: vecchio scarpone. Ciondolava in difesa e se perdeva non era la fine del mondo: let’s rock.

Michael Bradley, 25 anni, è diverso, per niente hippy, anzi lo chiamano il marine: ha il cranio rasato, occhi che prendono la mira, propensione all’ordine. Ha il pallone tra i piedi da sempre, gioca in nazionale, suo padre è allenatore, ex ct degli Usa, ora sulla panchina dell’Egitto. Mike è qui per fare il suo job, non per attraversare esperienze, né per assecondare marketing. E’ il primo del nuovo mondo che viene a giocare in quello vecchio: per sfondare, per confrontarsi, non per curiosare. Non è nemmeno l’amico americano: è più “made in Europe” che “made in Usa”. In cinque anni: Olanda (Heerenveen), Germania (Borussia D.), Inghilterra (Aston Villa), Italia (Chievo e Roma). Lingue diverse, ma stessa vita da mediano.

Lei è l’americano più giovane mai arrivato in Europa.

«Sono sbarcato a 20 anni. Solo e senza sapere molto. Non è stato facile: la lingua, il cibo, la cultura, le abitudini. Sei ragazzo in un paese straniero: alla sera torni a casa, e non hai nessuno con cui parlare.
Ma di una cosa ero certo: volevo giocarmi un posto con i grandi, non cercavo una cuccia o una pacca sulla spalla. Sono cresciuto con il calcio, in una famiglia di sportivi, mi divertivo con il pallone nel giardino dietro casa. Ma nello stesso momento ho capito: per andare avanti bisogna essere competitivi, non aver paura del confronto. A 16 sono passato professionista, prima ho frequentato l’accademia di Bradenton in Florida, accanto, sui campi da tennis, c’era Maria Sharapova».

Non si sente l’americano sbagliato: niente basket, baseball, football?

«Mai provato invidia per chi ha più riflettori di me. Mia madre ha fatto sport, è stata campionessa di lacrosse, e così le mie due sorelle. Crescere da solo all’estero mi ha rafforzato, mi ha dato carattere. E sul calcio in America dovete aprire gli occhi: noi siamo cambiati, ora dovete farlo voi. In Usa è uno sport molto praticato, soprattutto nei college, si gioca misto, anche con le donne. Certo, qui sento la responsabilità di dover far bene per dimostrare che anche noi americani meritiamo rispetto e credibilità. Da noi non ci sono i grandi numeri dell’Europa e del Sudamerica, ma abbiamo la stessa
mentalità e determinazione».

Frequenta Roma?

«Poco. Ci sono arrivato che mia moglie Amanda era incinta. E abbiamo appena avuto Luca. Non vivo in centro, ma a Casal Palocco, non vado al cinema, preferisco stare a casa e guardare in tv lo sport. Mi è piaciuta molto piazza San Pietro, vorrei ritornarci, stiamo bene qui, ci arrangiamo anche in cucina. Parlo italiano anche ai fornelli».

Ha avuto dei modelli?

«Ho guardato e ho cercato di prendere: da Roy Keane la leadership in campo ».

Si fermi: Keane mandava al diavolo gli arbitri e spaccava ginocchia.

«Continuo: Keane in squadra era rispettato per il suo carattere. Di Steve Gerrard ammiro la capacità di sapere fare tutto. Il mio mito: Demetrio Albertini, per la sua abilità tattica, il tenere posizione senza mai deconcentrarsi».

Anche Armstrong è stato un all-american boy.

«Lance resta un eroe, una grande persona. Per come ha lottato contro il cancro, per la fondazione che ha creato, perché non si è fatto condannare dalla malattia e ha dato speranza a tutti i malati.
Si può e si deve combattere ».

Ma Armstrong si è molto dopato.

«Sfortunatamente sì. Ma non è il solo colpevole. Nel ciclismo lo fanno tutti e nessuno lo dichiara. Questo non intacca il lavoro bestiale che Lance ha fatto contro il cancro. Poteva rassegnarsi, smettere di correre, non occuparsi degli altri. Invece ha raccolto una montagna di denaro e lo ha dato alla ricerca. Io divido l’uomo dallo sportivo. Ci sono persone che hanno tutto, salute compresa, e non fanno niente».

Cosa ha capito del calcio italiano?

«C’è tensione e attenzione. Non solo il giorno della partita, che sarebbe pure giusto, ma tutti i giorni. Questo lo rende diverso: devi reggere e devi rendere. A me non dispiace: il campo è onesto, dà il suo verdetto e io mi chiedo: ho lavorato bene? Sono stato capace di aiutare gli altri? Il senso dello sport è questo».

Mai visto un derby?

«Non dal vivo e non dal campo. Sarò pure un alieno, ma sono pronto. Per noi in America il derby è quando in nazionale affrontiamo il vicino Messico».

Meglio non fare paragoni. E il derby Obama-Romney?

«Volevo votare, ma non ho potuto per motivi burocratici, servivano documenti che non avevo».

Dovesse portare su Marte un esemplare da derby?

«Francesco. Il cognome non serve. Per come legge il gioco e riesce a conquistarsi spazio. Direi a loro: imparate da Totti a fare la cosa giusta».

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